mercoledì 31 dicembre 2014

Quest'anno tutto "nuovo che avanza" si chiude con la "grattata" del nostro "Serial Twitter"

Il "CronoProgramma di Matteo Renzi per "l'anno che verrà"

Non ci resta che sperare, come al solito, nell'anno che verrà (che però da alcuni anni è sistematicamente peggiore di quello appena trascorso. L'uomo che va di fretta ha cannato ancora una volta. Troppa fretta. Si era insediato in camera da letto, minacciando un tweet all'ora, quando sembrava che le cose a bordo della nave incendiata procedessero a meraviglia. Poi, col passare delle ore, i "tweet" (degenerazione perversa dei comunicati-stampa), i tweet sono andati "in dissolvenza", come i mille "impegni del nostro Pres del Cons Matteo Renzi, il supersonico cazzaro che il mondo ci invidia...

Ma c'è di peggio: c'è la sua arrogante conferenza-stampa "one-way" di fine anno: un preclaro esempio di presunzione, arroganza, ed arte di arrampicata sui vetri insaponati. Leggiamo la godibilissima descrizione di Francesco Merlo, incrociamo le dita, e speriamo che nel 2015 il Nostro Premier stia un po' più zitto. Marco (mese degli esami di riparazione) è ormai alle porte...

Tafanus

La furia pop di Renzi trasforma Al Pacino nel trascinatore che salverà l'Italia (di Francesco Merlo)

«ABBIAMO cambiato il ritmo dell'Italia», ha scandito con orgoglio, ma il suo «senso dell'urgenza» è velocità o, come si dice a Firenze, è furia? Mai era stata così chiara l'ambiguità — rapidità o fretta? prontezza o precipitazione? - della leadership di Matteo Renzi che ieri si è spinto sino all'elogio (letterale) «della bulimia ».

E', tuttavia, con una interminabile conferenza sul renzismo, con un prolisso racconto su se stesso - «vedo gli sbadigli della terza fila» - che Renzi ha chiuso il suo primo anno che, come ha spiegato Hobsbawm a proposito dei secoli, non coincide con il calendario. E' infatti un "anno breve" perché è cominciato nel febbraio di #Enricostai sereno, ma potrebbe diventare lungo perché finirà solo quando sarà eletto il nuovo capo dello Stato «del quale vedo che ne sapete più di me» (... Mattè... almeno li tagliano sallo... NdR)

E va detto subito che l'incontro di fine anno del premier con la stampa è per sua natura una cerimonia poco renziana. Al punto che «non conviene che io vi dica qui cosa penso dell'Ordine dei giornalisti» ha replicato, con l'aria irridente, al presidente Enzo Iacopino che, con l'aria grave, gli aveva presentato i cahiers de doléances dell'informazione. E poi via contro gli editorialisti, i gufi che «non sono quelli che parlano male di me, ma quelli che parlano male dell'Italia». .. E descrive i giornalisti («che non sono diversi dalla classe dirigente di questo paese») ammiccando a Walter Matthau e Jack Lemmon: «Mi piaceva l'odore della rotativa» ha detto, anche se le date della biografia lo smentiscono. Si è insomma divertito ad accennare con impertinente malizia pop alle miserie di una professione «sulla quale ho le mie idee molto tranchantes che però tengo per me». Ma ha toccato il punto più alto della sapienza pop, e in una forma al tempo stesso umile e carismatica, quando si è appropriato del nomignolo Renzie, perché "i soprannomi non sono falsi nomi ma altri nomi" e con l'uso goliardico e sottomesso dei nomignoli sempre l'Italia ha cercato di catturare la sostanza di ogni suo nuovo capo, quel carisma che nel mondo è oggetto di studi scientifici e qui da noi di culto della personalità e di pernacchie altrettanto gregarie.

Di sicuro nell'antologia dello scherno, (da Boy a Renzusconi, da Ebetino a Pittibimbo, da Bomba a Renzie ne ho contati 25 in soli dieci mesi), c'è la storia della leadership di Renzi, più ancora che nei 53 libri che gli sono stati dedicati nello stesso 2014. Dunque, non di Gramsci ma di Fonzie ha detto ieri «non sono degno», affascinando così i fans di Briatore senza perdere i gramsciani che ne colgono il sottinteso ironico. E di cosa non è degno? Non dei "Quaderni dal carcere" ma «di portare il giubbotto » che è la consapevolezza dell'impacciato imitatore che non ce l'ha fatta a diventare il bullo fighetto che lo accusano di essere. Insomma gli piace il soprannome che lo inchioda al chiodo, al fighettismo del Fonzie che per sentirsi "cool" dice "hey!".

Il paragone invece con Al Pacino che "In Ogni maledetta domenica" allena la sua squadra come lui sta allenando l'Italia è più banale, meno sapiente, ma immediatamente efficace perché se Fonzie rischiava d'essere esclusivo, Al Pacino è sin troppo inclusivo, una specie di divinità del pop: «Non credo in Dio, credo in Al Pacino» è l'aforisma fulminante dell'attrice Valentina Lodovini. E quel monologo del coatch Al Pacino sul "possiamo farcela" è un classico, padre del "We Can" di Obama (e Veltroni) e figlio del We Can Work It Out dei Beatles. E dunque Al Pacino contro la lentezza che è resistenza allo sviluppo, Al Pacino contro il mondo arcaico della Camusso, Al Pacino contro l'asfissia della Rai di cui «mi occuperò nel 2015 insieme alla scuola e alla cultura» (...non è una promessa... è una minaccia. NdR), Al Pacino contro i gufi, Al Pacino contro le caverne ideologiche della Pubblica amministrazione che promette di bonificare «nel febbraio 2015» ammiccando un po' troppo pericolosamente ai fannulloni dell'indimenticabile Brunetta il fantuttone.

Velocità o furia?

Si sa quanto sono subdole le cerimonie che sempre desantificano le feste. E' infatti prevalso il rito delle domande automatiche, quasi tutte sulle elezioni del nuovo capo dello Stato. Senza risposta possibile. Domande consapevolmente inutili su Prodi, Draghi, Padoan, su una donna al Quirinale, sul metodo... e risposte consapevolmente evasive: «non partecipo al gioco dell'indovina chi?», «un presidente ce l'abbiamo... ».

«Dopo due ore e mezza chissà quanti si sono addormentati» ha detto, con rassegnazione, alla fine di questa sua lunga ode della brevità, del «mai una giornata persa», del «sono grato ai senatori che lavorano anche di notte» , del «noi non ci stanchiamo», che è un luogo comune della retorica italiana, di Berlusconi, di Andreotti, di Craxi e, arretrando ancora, di Mussolini, i quali tutti lasciavano la luce sempre accesa.

Anche la contrapposizione della sua «Italia di corsa» che «cambia le cose in dieci mesi» ai «settant'anni dell'Italia» di quegli gli altri «che facevano molte leggi e non cambiavano nulla» rimanda ad altre retoriche italiane che - vendetta del pop - affiorano inaspettatamente, quella del Sorpasso innanzitutto: non il giamaicano Usain Bolt che ha battuto tutti i record, ma il bel ceffo Vittorio Gassman nel film simbolo della generazione delle autostrade, l'Italia che identificò appunto la libertà con la fretta: di crescere, di arricchirsi, di deturpare per costruire, la libertà di spicciarsi, di correre, di fare presto, di arrivare prima degli altri che è sempre meglio superare, sorpassare, lasciare indietro senza regole e senza rispetto.

«Meglio arroganti che disertori» ha detto ancora Renzi. E poi: «Mamma mia, com'è tarantolato questo ragazzo" penseranno di me, perché la nostra velocità non si misura nei prossimi dodici mesi ma nelle prossime dodici ore» (...addirittura...). Come si vede, c'è pure il rischio della retorica del lampo futurista, roba buona per i quadri di Balla e per l'incontinenza della lingua più veloce del pensiero, ma meno per la politica, dove la velocità di governare e riformare è fatica di coraggio e prudenza, la forza inesorabile della moderazione.

Vedremo nel 2015 se quella di Renzi è furia, che in Italia è sempre stata la comare della lentezza, o se davvero «il decreto sul fisco è una rivoluzione», «lo jobs act è una pietra miliare», «la riforma costituzionale è un passaggio storico». .. Renzi ha usato molti superlativi anche per il comandante del Norman Atlantic, che è stato l'ultimo a lasciare la nave in fiamme. Così siamo ridotti: invece di punire chi commette reati, delitti, misfatti e infrazioni, dobbiamo premiare chi non li commette. Daremo premi a chi mangia con le posate, a chi non sputa per terra, al comandante che non abbandona la nave, a chi è veloce perché rispetta gli impegni e usa bene il poco tempo che ha invece della furia (pop) di "guidare a fari spenti nella notte per vedere se poi è così difficile morire".

Francesco Merlo

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edit

lunedì 29 dicembre 2014

Renzi tenero cogli evasori, che da ieri sono in festa

Legge-pro-evasori
Le nuove norme sull'abuso del diritto confermano quasi in toto il testo licenziato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre: rischierà il carcere solo chi evade oltre 150mila euro, contro i 50mila attuali, e le fatture false saranno reato solo se superiori ai 1000 euro (Fonte: Fatto Quotidiano)

“Abbiamo fatto un decreto sull’abuso del diritto e nessuno ne parla”. Così il premier Matteo Renzi, durante la conferenza stampa di fine anno, ha puntato il dito contro giornali e tv colpevoli di non dare sufficiente spazio ai contenuti del decreto legislativo in materia fiscale varato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre, insieme alle prime norme attuative del Jobs Act, all’ingresso dell’Ilva in amministrazione straordinaria e al Milleproroghe. Di quel testo, in realtà, si è già scritto molto prima della sua formalizzazione, quando si sono diffuse le prime indiscrezioni sui contenuti.

A far discutere è stata prima di tutto la decisione – confermata nel testo emanato dall’esecutivo e ora all’esame delle commissioni parlamentari – di fissare un tetto di 1.000 euro al di sotto del quale l’emissione di fatture false non è reato. Come dire che quello che oggi è un illecito penale punito con la reclusione da 18 mesi a 6 anni diventa un semplice illecito amministrativo. E il colpevole se la cava con una multa. Lo stesso vale anche per chi si serve di quelle fatture o di altri “documenti per operazioni inesistenti” per truccare la dichiarazione dei redditi con l’obiettivo di evadere le imposte sui redditi o l’Iva.

Non solo: le nuove misure decise dal governo triplicano, da 50mila a 150mila euro, il limite oltre il quale l’omesso versamento dell’Iva e delle ritenute certificate è punito con il carcere. Un intervento che, stando a un’indagine de Il Sole 24 Ore, comporterà l’archiviazione di almeno il 30% dei processi per questi reati attualmente in corso nei tribunali italiani. Le nuove disposizioni, in base al principio del favor rei, saranno infatti applicabili con effetto retroattivo. Rendendo carta straccia i fascicoli sulle vecchie violazioni tra i 50 e i 150mila euro. Di seguito, nel dettaglio, le altre principali novità introdotte dal decreto sull’abuso del diritto, che secondo Renzi punta a rendere le Entrate “consulente e non nemico” del contribuente e a “ridurre la pressione burocratica“.

La dichiarazione infedele non è reato se si evadono meno di 150mila euro - Oggi chi, per evadere le tasse, presenta al fisco una dichiarazione infedele, rischia la reclusione da uno a 3 anni se ha “scansato” imposte per oltre 50mila euro. Il decreto del governo triplica la soglia, permettendogli di mantenere la fedina penale immacolata anche se ne ha evasi fino a 150mila. Rispetto alle anticipazioni di novembre è cambiato, di poco, solo il livello a cui è stata fissata l’asticella: le bozze parlavano di 200mila euro. L’altra novità consiste nel fatto che per essere denunciati alla Procura occorrerà sottrarre all’imposizione redditi per almeno 3 milioni di euro, contro gli attuali 2 milioni.

Soglia più alta anche per chi sfugge del tutto al fisco – Per chi non presenta proprio la dichiarazione dei redditi, rendendosi colpevole di omessa dichiarazione, vengono inasprite le sanzioni: se oggi la pena prevista è la reclusione da uno a 3 anni, le nuove misure la portano da un minimo di un anno e sei mesi a un massimo di 4 anni. Ma, anche in questo caso, aumenta pure la soglia di punibilità: l’imposta evasa dovrà essere superiore a 50mila euro, una via di mezzo tra i 30mila fissati dal governo Berlusconi nel novembre 2011 e i 77mila vigenti fino ad allora. Il tetto resta invece a 30mila euro per la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, cioè documenti falsi o altri “giochetti” con l’obiettivo di “ostacolare l’accertamento” e “indurre in errore l’amministrazione finanziaria”. Ma ecco che anche qui le maglie si allargano: dovranno temere la reclusione solo quanti sottrarranno al fisco più di 1,5 milioni di euro. Oggi ne basta uno per rischiare il carcere.

Sale la pena per chi distrugge la contabilità… – L’unico articolo nel quale si intravede un effettivo inasprimento su tutta la linea è quello su “occultamento o distruzione di documenti contabili”, che saranno puniti con la prigione da un anno e sei mesi fino a sei anni, mentre attualmente la pena prevista va da sei mesi a cinque anni.

…ma il fisco dovrà fare in fretta, pena la decadenza - Infine, a dispetto degli appelli della direttrice delle Entrate Rossella Orlandi l’esecutivo non è tornato sui suoi passi riguardo ai tempi a disposizione dell’Agenzia per l’accertamento dell’evasione. Oggi il fisco, in caso di violazioni con rilevanza penale, può contare su un raddoppio dei termini di decadenza, che sono in generale di 4 anni (5 in caso di omessa dichiarazione). Il decreto licenziato il 24, invece, stabilisce che il raddoppio scatti solo se entro la scadenza ordinaria è stata presentata denuncia in Procura.

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domenica 28 dicembre 2014

Russi, filorussi e antirussi (di Michele Serra)

Credit: Michele Serra - L’amaca del 18 febbraio 2025

Michese SerraErano russi gli oppositori avvelenati o morti in carcere, come Navalny. Sono russi anche i russi costretti all’esilio per sopravvivere senza essere eliminati. Sono russe le femministe Pussy Riot, perseguitate dal regime e accusate di “attivismo antireligioso” (come in Iran!). Era russa Anna Politkovskaya, assassinata sotto casa per avere scritto dei crimini orribili dei militari russi in Cecenia.

Fossero anche, i russi che si oppongono a Putin nel nome della democrazia e della libertà di parola e di pensiero, una esigua minoranza, in buona parte sottoterra, basta la loro esistenza a rendere bugiarda e odiosa l’accusa di “propaganda antirussa” che i pappagalli del regime ripetono contro chiunque attacchi Putin. Essere contro Putin non vuol dire essere “antirussi”, vuol dire essere anti-Putin. Anche un idiota capirebbe la differenza. Un nazionalista, no. Il nazionalismo è una delle vie più dirette verso la stupidità. (Per approfondimenti, chiedere alla pesciarola nostrana . NdR)

Tra i tanti imbrogli ideologici dei quali si macchiano i nazionalismi, questo è forse il più odioso e il più inaccettabile, nonché il più frequente, e non solo in Russia: accusare le opposizioni di essere “nemiche della Patria”, come se la Patria fosse in concessione esclusiva di una sua sola parte politica. Una truffa che può fare presa, bene che vada, sul popolino sprovveduto, eterna vittima degli imbrogli del potere. Non su chi ha avuto in concessione un cervello, e prova a usarlo. Disse la figlia di Politkovskaja: “purtroppo i russi non sono abituati a pensare”. È la più filorussa delle frasi, ma per capirlo bisogna essere – appunto – abituati a pensare.

Michele Serra

Eugenio Scalfari: continua la "retromarcia dolce" in allontanamento dallo statista Renzi

TafanusQualche tempo fa avevamo stigmatizzato Eugenio Scalfari che - pur lasciandosi qualche "exit-strategy", aveva sponsorizzato Renzi, gratificandolo anche con una dichiarazione di voto. Poi, e devo dire quasi subito, era iniziata una lenta retromarcia, lungo l'abituale tracciato "ho votato Renzi > ho votato Renzi, chi altri avrei potuto votare? > ho votato Renzi però... > ho votato Renzi, ma non credo che lo rivoterei". Il tutto all'insegna del non-detto, o del detto a metà.

Ora Repubblica non riesce più a "tenere" le sue firme. Non le migliori. Non Curzio Maltese, che ha addirittura lasciando, per candidarsi alle europee con la lista Tsipras; non Federico Fubini, che non ha mai seguito gli ordini di scuderia; non Michele Serra; non Filippo Ceccarelli .Questi (e altri) se Ezio Mauro e De Benedetti li vogliono, devono acconciarsi a lasciarli scrivere ciò che pensano, e non già ciò che la proprietà vorrebbe che facessero finta di pensare.

A questo punto l'editore De Benedetti deve decidere se continuare a sostenere Renzi, sperando (e forse invano) che questo lo aiuti a risolvere i suoi "problemi elettrici", o salvare ciò che si può salvare di Repubblica, evitando di far fuggire a gambe levate verso altri lidi le firme migliori, ed acconciandosi all'equazione che sfasciare Repubblica facendo fuggire le penne migliori non risolverebbe i problemi dell'Ing. De Benedetti, ma ne aggiungerebbe un altro: la crisi di Repubblica. Alla quale, a ruota, si aggiungerebbe quella de l'Espresso. De Benedetti se ne faccia una ragione: non salverà le centrali elettriche affidando le posizioni-chiave di Repubblica a giornalisti alla Stefano Folli, pronti a lavorare  con "Franza o Spagna, purchè se magna".

Scalfari sembra averlo capito. Ma gli altri? Vorranno e potranno fare la conversione a U in appoggio alla destra guidata da Renzi sotto le insegne del PD, oppure saranno spinti da questa dissennata politica editoriale nelle braccia dei vari "Fatto Quotidiano" ed "Huffington Post", o del Corrierone, che a questo punto è diventato meno di destra di Renzubblica?

Quello che segue è un abstract della retromarcia odierna. Lieve, senza grattate, ma pur sempre retromarcia. Il renzismo è in via d'estinzione, e non sarà salvato dalla "indulgenza plenaria" concessa agli statali per via di "Giobatta". Di tutto si può accusare Scalfari, tranne del fatto che non abbia un orecchio molto allenato ad avvertire i primi scricchiolii delle navi che stanno per affondare... Tafanus

La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia (ovvero: il completamento della ri-riconversione di Eugenio Scalfari) (Fonte: Eugenio Scalfari - Repubblica)

Scalfari-eugenio[...] mi corre tuttavia l'obbligo di dire alcune verità (così almeno credo che siano) su tre questioni di bruciante attualità: il Jobs Act, la legge delega approvata dal Parlamento ha dato luogo ai primi due decreti attuativi; la legge elettorale che sarà tra breve trasmessa in Parlamento e la riforma della legge di Bilancio che il governo proporrà alle Camere il prossimo autunno.

Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta lavorando e susciterà anch'esso nel momento in cui sarà presentato in Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni.

Ho già scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma fermo restando che non godranno  -  come invece ancora accade per i vecchi assunti  -  dell'articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe creare imbarazzi con la Corte Costituzionale.

Il Jobs Act non crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in dipendenti regolari di quell'azienda (ma senza articolo 18) concedendo contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno premiati con l'esenzione dai contributi e con la piena libertà di licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.

Il Jobs Act ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già si sa che in quei decreti c'è anche un trattamento per i licenziati collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso indennizzi ma non reintegro deciso  -  come era un tempo  -  dal giudice del lavoro.

Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli.

Si dice che leggi di questo tipo sono gradite dalla Commissione Europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare. Quei tre enti desiderano che l'Italia, come tutti i governi dell'Eurozona, rispetti gli impegni presi: il "fiscal compact", una politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche concessione nei tempi e nella quantità, l'aumento della produttività e della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi debbano essere realizzati non c'è scritto da nessuna parte. Secondo me dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione. Dell'articolo 18 all'Europa non interessa nulla, riguarda il governo italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto coerente.

La legge elettorale approderà in Parlamento la prossima settimana, e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14 gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene nell'ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non potrà essere applicata prima dell'autunno 2016.

La chiamano l'Italicum e  -  lo ripeto  -  mi sembra efficace ma è aggrappata all'abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e attenua i poteri di controllo del potere legislativo.

Questo è l'aspetto estremamente negativo: non l'Italicum ma il Senato relegato ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare i propri poteri questa riforma è l'ideale.

Terzo argomento la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un consuntivo del bilancio alla fine dell'anno; quella che un tempo si chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi obiettivi per l'anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale deriva il "fiscal compact" applicato all'Italia da una deliberazione di Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell'Unione. Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l'articolo 81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell'epoca ministro del Bilancio e ancora governatore della Banca d'Italia).

Era molto semplice l'articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: "Non può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l'entrata corrispondente". Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura 1968/72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per valutare se il dettato dell'articolo 81 fosse stato rispettato. Se il parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo su basi completamente diverse.

Credo che quel comitato sia stato sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute, approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell'articolo 81 che però è stato alleggerito con l'abolizione del terzo comma dal governo Monti nel 2012.

Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con l'attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere per il futuro l'equilibrio tra le entrate e le spese. All'articolo 81 dunque diamo addio. È chiaro che l'equilibrio sarà anche valutato dal Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è un'assemblea in gran parte di "nominati" dalle segreterie del partito che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto sta già avvenendo sia pure in regime di "fiscal compact". Avveniva perfino con l'81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà completamente abolito che cosa farà la "Compagnia dei magnaccioni". Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt'altre faccende affaccendato [...]

Eugenio Scalfari

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mercoledì 24 dicembre 2014

Matteo Renzi, professione "Salvatore d'Aziende"

La famiglia Renzi in genere è specializzata da decenni in "salvataggi" di aziende, tutti finiti sistematicamente con trasporto dei libri in tribunale (vedi il POST "Tutte le condanne delle società della famiglia")

Ma pensavo che le capacità di Salvatore di Matteo Renzi fossero limitate alle aziende di famiglia (sarebbe stato un guaio minore). Invece apprendiamo da "Youdem" versione "renzizzata" che orma Renzi è un "salvatutto". L'altro giorno, ascoltandolo distrattamente in TV con un certo fastidio (il telecomando non era a portata di mano) fra le aziende che elencava come "salvate", mi era sembrato di sentir citare anche Termini Imerese (i cui salvatori - come sanno cani e porci, tranne che su Youdem e EUROPA), sembra che non abbiano una lira, e che abbiano competenze nel settore tutte da dimostrare...

Grazie ad un articolo di qualche giorno  fa di  Stefano De Agostini sul FATTO, oggi possiamo confrontare le "narrazioni" del venditore di pentole con la realtà. Finora il parolaio magico, con una certa prudenza - e fidando sulla memoria corta degli italiani - si era limitato all'annuncite di cose meravigliose che avrebbe inevitabilmente fatto in pochi giorni. Ora, abbandonata ogni prudenza, si è scatenato anche a "palleggiare" su cose fatte". Peccato che alcune delle "cose fatte" siano state fatte da altri; altre siano state fatte - male e diverse dalla narrazione - da lui; altre, infine, non sono mai accadute, se non nelle interviste del pallonaro.

Ecco cosa ci racconta Stefano De Agostini (roba che chiunque può controllare):

Renzi-salva-imprese

Le note della colonna sonora di Amelie accompagnano le immagini di un’Italia che lavora. Poi la musica sfuma e lascia spazio alle parole del premier Matteo Renzi che annuncia in parlamento la risoluzione della vertenza Ast di Terni. Mettiamo in pausa. Comincia così il video “Un’impresa possibile“, caricato su Youtube dalla redazione di YouDem, la web tv del PD, nata sul satellite e poi dirottata sulla rete.

Un filmato lungo poco più di un minuto e mezzo, con un messaggio preciso: “Sono quaranta le crisi aziendali di cui il governo Renzi si è occupato e che sono state risolte a partire da febbraio”. Eppure, c’è una nota stonata nella propaganda a suon di fisarmonica dell’epopea renziana: nell’elenco delle vertenze “risolte” ce ne sono alcune ancora aperte e altre che si sono chiuse con un esito tutt’altro che positivo. 

Clicchiamo “play”, andiamo avanti. Mentre la voce fuori campo snocciola le crisi prese a cuore dal governo, ecco che i nomi delle aziende “salvate” dall’esecutivo Renzi sbucano dal video e riempiono lo schermo. In un angolino a sinistra, si nota il nome della Keller, azienda che costruisce vagoni ferroviari. Il 17 novembre, la società è stata dichiarata fallita dal tribunale di Cagliari. L’azienda conta 475 dipendenti, 285 a Villacidro, in Sardegna, e 190 a Carini, in Sicilia: per loro si sono spalancate le porte del licenziamento. Contro la sentenza è partita una serie di ricorsi, portati avanti dai lavoratori, dai sindacati, dalle Regioni Sardegna e Sicilia e dallo stesso ministero dello Sviluppo Economico. Una vicenda conclusa nel peggiore dei modi, che si spera possa essere riaperta presto.

Un’altra vertenza etichettata come “risolta” è quella di Natuzzi, il gruppo che possiede il marchio Divani&Divani. L’azienda, dopo avere annunciato 1.700 esuberi, ha firmato un accordo nell’ottobre del 2013, quindi sotto il governo Letta. L’intesa riduceva le eccedenze a 1.500 unità e prevedeva un anno di cassa integrazione, il tempo necessario per trovare un nuovo accordo per rilanciare la produzione. A distanza di dodici mesi, tuttavia, le parti non hanno trovato un’intesa. Così l’azienda ha chiesto un altro anno di cassa. Insomma, un’altra partita aperta.

Alla voce “vertenze più rilevanti”, invece, è annoverata la vicenda Alitalia: in effetti, ad agosto, è stato siglato l’accordo che ha sancito le nozze con la compagnia emiratina Etihad. Quello che YouDem non specifica è che l’intesa prevedeva 2.251 esuberi e non è stata firmata da uno dei più rappresentativi sindacati dei trasporti, la Filt Cgil. Una parte delle eccedenze è stata ricollocata o ha accettato un incentivo all’esodo, ma sono state tagliate fuori 994 persone che da novembre sono andate incontro alla mobilità. Il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi ha detto che “solo (ma speriamo siano meno) circa 440 persone alla fine di questa procedura rimarranno in mobilità”. Ma Nino Cortorillo, segretario nazionale Filt Cgil, ha fissato il numero di esuberi in 1300 unità: “Vorremmo ricordare a Lupi che ai 440 licenziati finali andrebbero aggiunti coloro che hanno accettato di uscire dall’azienda solo perché sicuri di essere licenziati. A questi numeri inoltre vanno sommati altrettanti 500 ancora in buona parte da ricollocare”.

Ma andiamo avanti. “Ed ecco la cartina della ripresa industriale“, recita la voce fuori campo, mentre lungo lo stivale compaiono cerchi blu pop-up, che indicano i successi delle vertenze seguite al Mise. Quello che non è chiaro è il concetto di “ripresa industriale” sbandierato da YouDem. Già, perché le cifre dell’Istat dipingono un’altra Italia. L’ultima rilevazione sulla produzione industriale, che risale a settembre 2014, segna il minimo storico almeno dal 1990: il dato destagionalizzato sprofonda a quota 89,8, posto 100 il livello del 2010. A febbraio, quando Matteo Renzi è diventato premier, il dato si attestava a 91,8. I numeri lasciano ben poco spazio all’idea di una ripresa industriale.

“L’intesa raggiunta tra parti sociali, imprenditori e lavoratori – prosegue la speaker – ha portato al superamento di situazioni negative di crisi“. Certo, ma se YouDem festeggia le quaranta vertenze “risolte”, bisogna anche ricordare le decine di ferite aperte nel tessuto economico italiano, che si portano dietro le incertezze sul futuro di migliaia di lavoratori. Basti pensare alla compagnia aerea Meridiana, che a settembre ha avviato 1.634 licenziamenti. E una volta atterrati in aeroporto, la situazione resta critica.

La società Groundcare, che si occupa dell’assistenza per i passeggeri di Fiumicino e Ciampino, è stata dichiarata fallita nel maggio del 2014. Per gli 850 dipendenti è scattata la cassa integrazione, ma se non si trova un acquirente in tempi stretti, gli operatori sono destinati al licenziamento.

Dai cieli all’asfalto, anche il settore auto non sorride. L’esempio più clamoroso è quello di Termini Imerese, lo stabilimento che Fiat ha fermato nel 2011. Da allora i 1.100 dipendenti dell’impianto, indotto compreso, sono in cassa integrazione: l’ammortizzatore scadrà a fine dicembre.

La newco Grifa si è candidata per rilanciare il sito producendo auto ibride, ma finora non ha ancora dimostrato di avere la stabilità finanziaria necessaria ad avere il via libera dal Mise. Se non si chiuderà un accordo, per gli operai scatterà il licenziamento. Un’altra lunga vertenza riguarda l’azienda informatica Agile ex Eutelia: mentre la dirigenza dell’azienda è finita a processo per bancarotta fraudolenta, aggiotaggio e associazione a delinquere, nel 2010 i dipendenti si sono trovati in cassa integrazione. I 780 lavoratori rimasti in seno alla società si trovano con l’ammortizzatore sociale in scadenza a fine dicembre e senza prospettive per il futuro. Un altro settore in crisi nera è quello dei call center: solo per citare i due casi più preoccupanti, Almaviva ha annunciato tremila esuberi a Palermo, mentre la Ecare di Cesano Boscone (Milano) si appresta a chiudere licenziando quasi 500 persone. Ma la voce amica ci rassicura: il governo ha individuato “chiare linee strategiche che nel passato sono mancate”. Per poi salutarci: “Un’impresa possibile”.

...Non esistono "Imprese impossibili" per il Miracoliere di Frignano sull'Arno. Lui farà cose che voi umani eccetera. Altro che quel miracoliere-dilettante che si è dovuto  limitare a creare trilioni di posti di lavoro, a dare una dentiera a tutti, e a sconfiggere definitivamente il cancro, la gotta e il ginocchio della lavandaia... Il Nuovo Miracoliere opera scientificamente. Una Grande Riforma al mese, crono-programma su foglio Excel, e Due Badanti Due, che gli ricordano ogni mattina, alle sette in punto, di informare gli italiani, via Twitter, che "il Presidente è già al lavoro".

Presidente, ci ascolti. Lavori di meno. Ne guadagnerebbe sia la sua salute, che quella dell'Italia.

Tafanus

0201/0700/1930

Buon Natale a tutti gli amici del Tafanus

I nostri "auguri musicali li affidiamo alla splendida voce di Diana Krall

...l'albero del Tafanus cambia le foglie, ne perde alcune, ma ne aggiunge di nuove... alcune foglie sono state portate dal vento dal mondo dei blog a quello dei "social networks", e in primis verso Facebook e Twitter, ma il totale di commentatori diretti, di coloro che riprendono e commentano il Tafanus su Twitter e/o su "feisbuc" è cresciuto ancora, e "L'Albero del Tafanus" ormai deve essere gestito con artifizi grafici. Certamente avremo dimenticato qualcuno, certamente avremo storpiato qualche nome. A tutti chiediamo scusa in anticipo. A tutti, e prima di tutto ai "dimenticati", auguriamo un periodo di serenità, che possa superare i confini temporali delle feste natalizie...

Auguri-2014-01
Auguri-2014-02
Auguri-2014-03
Auguri-2014-04

                   

Matteo Renzi, professione "Salvatore d'Aziende"

La famiglia Renzi in genere è specializzata da decenni in "salvataggi" di aziende, tutti finiti sistematicamente con trasporto dei libri in tribunale (vedi il POST "Tutte le condanne delle società della famiglia")

Ma pensavo che le capacità di Salvatore di Matteo Renzi fossero limitate alle aziende di famiglia (sarebbe stato un guaio minore). Invece apprendiamo da "Youdem" versione "renzizzata" che orma Renzi è un "salvatutto". L'altro giorno, ascoltandolo distrattamente in TV con un certo fastidio (il telecomando non era a portata di mano) fra le aziende che elencava come "salvate", mi era sembrato di sentir citare anche Termini Imerese (i cui salvatori - come sanno cani e porci, tranne che su Youdem e EUROPA), sembra che non abbiano una lira, e che abbiano competenze nel settore tutte da dimostrare...

Grazie ad un articolo di qualche giorno  fa di  Stefano De Agostini sul FATTO, oggi possiamo confrontare le "narrazioni" del venditore di pentole con la realtà. Finora il parolaio magico, con una certa prudenza - e fidando sulla memoria corta degli italiani - si era limitato all'annuncite di cose meravigliose che avrebbe inevitabilmente fatto in pochi giorni. Ora, abbandonata ogni prudenza, si è scatenato anche a "palleggiare" su cose fatte". Peccato che alcune delle "cose fatte" siano state fatte da altri; altre siano state fatte - male e diverse dalla narrazione - da lui; altre, infine, non sono mai accadute, se non nelle interviste del pallonaro.

Ecco cosa ci racconta Stefano De Agostini (roba che chiunque può controllare):

Renzi-salva-imprese

Le note della colonna sonora di Amelie accompagnano le immagini di un’Italia che lavora. Poi la musica sfuma e lascia spazio alle parole del premier Matteo Renzi che annuncia in parlamento la risoluzione della vertenza Ast di Terni. Mettiamo in pausa. Comincia così il video “Un’impresa possibile“, caricato su Youtube dalla redazione di YouDem, la web tv del PD, nata sul satellite e poi dirottata sulla rete.

Un filmato lungo poco più di un minuto e mezzo, con un messaggio preciso: “Sono quaranta le crisi aziendali di cui il governo Renzi si è occupato e che sono state risolte a partire da febbraio”. Eppure, c’è una nota stonata nella propaganda a suon di fisarmonica dell’epopea renziana: nell’elenco delle vertenze “risolte” ce ne sono alcune ancora aperte e altre che si sono chiuse con un esito tutt’altro che positivo. 

Clicchiamo “play”, andiamo avanti. Mentre la voce fuori campo snocciola le crisi prese a cuore dal governo, ecco che i nomi delle aziende “salvate” dall’esecutivo Renzi sbucano dal video e riempiono lo schermo. In un angolino a sinistra, si nota il nome della Keller, azienda che costruisce vagoni ferroviari. Il 17 novembre, la società è stata dichiarata fallita dal tribunale di Cagliari. L’azienda conta 475 dipendenti, 285 a Villacidro, in Sardegna, e 190 a Carini, in Sicilia: per loro si sono spalancate le porte del licenziamento. Contro la sentenza è partita una serie di ricorsi, portati avanti dai lavoratori, dai sindacati, dalle Regioni Sardegna e Sicilia e dallo stesso ministero dello Sviluppo Economico. Una vicenda conclusa nel peggiore dei modi, che si spera possa essere riaperta presto.

Un’altra vertenza etichettata come “risolta” è quella di Natuzzi, il gruppo che possiede il marchio Divani&Divani. L’azienda, dopo avere annunciato 1.700 esuberi, ha firmato un accordo nell’ottobre del 2013, quindi sotto il governo Letta. L’intesa riduceva le eccedenze a 1.500 unità e prevedeva un anno di cassa integrazione, il tempo necessario per trovare un nuovo accordo per rilanciare la produzione. A distanza di dodici mesi, tuttavia, le parti non hanno trovato un’intesa. Così l’azienda ha chiesto un altro anno di cassa. Insomma, un’altra partita aperta.

Alla voce “vertenze più rilevanti”, invece, è annoverata la vicenda Alitalia: in effetti, ad agosto, è stato siglato l’accordo che ha sancito le nozze con la compagnia emiratina Etihad. Quello che YouDem non specifica è che l’intesa prevedeva 2.251 esuberi e non è stata firmata da uno dei più rappresentativi sindacati dei trasporti, la Filt Cgil. Una parte delle eccedenze è stata ricollocata o ha accettato un incentivo all’esodo, ma sono state tagliate fuori 994 persone che da novembre sono andate incontro alla mobilità. Il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi ha detto che “solo (ma speriamo siano meno) circa 440 persone alla fine di questa procedura rimarranno in mobilità”. Ma Nino Cortorillo, segretario nazionale Filt Cgil, ha fissato il numero di esuberi in 1300 unità: “Vorremmo ricordare a Lupi che ai 440 licenziati finali andrebbero aggiunti coloro che hanno accettato di uscire dall’azienda solo perché sicuri di essere licenziati. A questi numeri inoltre vanno sommati altrettanti 500 ancora in buona parte da ricollocare”.

Ma andiamo avanti. “Ed ecco la cartina della ripresa industriale“, recita la voce fuori campo, mentre lungo lo stivale compaiono cerchi blu pop-up, che indicano i successi delle vertenze seguite al Mise. Quello che non è chiaro è il concetto di “ripresa industriale” sbandierato da YouDem. Già, perché le cifre dell’Istat dipingono un’altra Italia. L’ultima rilevazione sulla produzione industriale, che risale a settembre 2014, segna il minimo storico almeno dal 1990: il dato destagionalizzato sprofonda a quota 89,8, posto 100 il livello del 2010. A febbraio, quando Matteo Renzi è diventato premier, il dato si attestava a 91,8. I numeri lasciano ben poco spazio all’idea di una ripresa industriale.

“L’intesa raggiunta tra parti sociali, imprenditori e lavoratori – prosegue la speaker – ha portato al superamento di situazioni negative di crisi“. Certo, ma se YouDem festeggia le quaranta vertenze “risolte”, bisogna anche ricordare le decine di ferite aperte nel tessuto economico italiano, che si portano dietro le incertezze sul futuro di migliaia di lavoratori. Basti pensare alla compagnia aerea Meridiana, che a settembre ha avviato 1.634 licenziamenti. E una volta atterrati in aeroporto, la situazione resta critica.

La società Groundcare, che si occupa dell’assistenza per i passeggeri di Fiumicino e Ciampino, è stata dichiarata fallita nel maggio del 2014. Per gli 850 dipendenti è scattata la cassa integrazione, ma se non si trova un acquirente in tempi stretti, gli operatori sono destinati al licenziamento.

Dai cieli all’asfalto, anche il settore auto non sorride. L’esempio più clamoroso è quello di Termini Imerese, lo stabilimento che Fiat ha fermato nel 2011. Da allora i 1.100 dipendenti dell’impianto, indotto compreso, sono in cassa integrazione: l’ammortizzatore scadrà a fine dicembre.

La newco Grifa si è candidata per rilanciare il sito producendo auto ibride, ma finora non ha ancora dimostrato di avere la stabilità finanziaria necessaria ad avere il via libera dal Mise. Se non si chiuderà un accordo, per gli operai scatterà il licenziamento. Un’altra lunga vertenza riguarda l’azienda informatica Agile ex Eutelia: mentre la dirigenza dell’azienda è finita a processo per bancarotta fraudolenta, aggiotaggio e associazione a delinquere, nel 2010 i dipendenti si sono trovati in cassa integrazione. I 780 lavoratori rimasti in seno alla società si trovano con l’ammortizzatore sociale in scadenza a fine dicembre e senza prospettive per il futuro. Un altro settore in crisi nera è quello dei call center: solo per citare i due casi più preoccupanti, Almaviva ha annunciato tremila esuberi a Palermo, mentre la Ecare di Cesano Boscone (Milano) si appresta a chiudere licenziando quasi 500 persone. Ma la voce amica ci rassicura: il governo ha individuato “chiare linee strategiche che nel passato sono mancate”. Per poi salutarci: “Un’impresa possibile”.

...Non esistono "Imprese impossibili" per il Miracoliere di Frignano sull'Arno. Lui farà cose che voi umani eccetera. Altro che quel miracoliere-dilettante che si è dovuto  limitare a creare trilioni di posti di lavoro, a dare una dentiera a tutti, e a sconfiggere definitivamente il cancro, la gotta e il ginocchio della lavandaia... Il Nuovo Miracoliere opera scientificamente. Una Grande Riforma al mese, crono-programma su foglio Excel, e Due Badanti Due, che gli ricordano ogni mattina, alle sette in punto, di informare gli italiani, via Twitter, che "il Presidente è già al lavoro".

Presidente, ci ascolti. Lavori di meno. Ne guadagnerebbe sia la sua salute, che quella dell'Italia.

Tafanus

0201/0700/1930

martedì 23 dicembre 2014

Matteo & Tiziano Renzi: tutte le condanne delle società di famiglia

 <p><strong><em><span style="color: #800000;">Il vizietto... se qualcuno volesse trovare una chiave di lettura per la fissazione renziana sull'art. 18, forse potrebbe trovare spunti interessanti in questo</span>&nbsp;<a href="http://www.panorama.it/news/cronaca/renzi-tutte-condanne-delle-societa-famiglia/" target="_self" title="">articolo di Antonio Rossitto e Duccio Tronci</a> ...</em></strong></p>
<p><strong><em><span style="color: #ff0000; font-size: 13pt; font-family: georgia,palatino;">Tiziano, il padre del premier indagato a Genova, non è un caso isolato. Altre imprese della famiglia hanno subito processi e multe </span></em></strong><br /><br /><a class="asset-img-link" href="http://iltafano.typepad.com/.a/6a00d83451654569e201b7c726a686970b-popup" onclick="window.open( this.href, '_blank', 'width=640,height=480,scrollbars=no,resizable=no,toolbar=no,directories=no,location=no,menubar=no,status=no,left=0,top=0' ); return false" style="float: left;"><img alt="Tiziano-renzi" class="asset  asset-image at-xid-6a00d83451654569e201b7c726a686970b img-responsive" src="https://iltafano.typepad.com/.a/6a00d83451654569e201b7c726a686970b-250wi" style="width: 250px; margin: 0px 5px 5px 0px;" title="Tiziano-renzi" /></a><strong>Ha riunito i devoti iscritti nell’angusta sede del Pd a Rignano sull’Arno</strong>, in piazza XXV Aprile. Sulle scrostate pareti alle sue spalle, occhieggiavano i poster di Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer, illustri antenati dell’amato figliolo alla guida della sinistra italiana. Poi Tiziano Renzi <em><span style="color: #800000;">(foto a sinistra)</span></em>, il pomeriggio del 16 settembre 2014, ha spiegato al gruppetto di concittadini accorsi che altro non poteva fare: dimissioni irrevocabili da segretario locale del partito.</p>
<p>Quella mattina, la Guardia di finanza di Genova aveva bussato alla sua villa di Torri, in cima a una collina non distante, per consegnargli un avviso di proroga delle indagini. <strong>L’accusa: la bancarotta fraudolenta della Chil Post</strong>, l’ex società di famiglia che si occupava di marketing e distribuzione di giornali. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne aveva ceduto una parte alla Eventi 6: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passava a Gianfranco Massone, 75 anni: suo figlio, Mariano, è in affari con Tiziano Renzi da anni. Anche la carica di amministratore della Chil Post finiva a una vecchia conoscenza: Antonello Gabelli. <strong>Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi falliva. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. E tanti interrogativi a cui i magistrati genovesi, Nicola Piacente e Marco Airoldi, stanno tentando di rispondere.</strong><br /><br />Tiziano Renzi, con la baldanza trasmessa al figlio, ci ha scherzato su: <em>"Finalmente mi hanno beccato!"</em>. Ha poi vergato una nota: <em>"Alla veneranda età di 63 anni e dopo 45 anni di attività professionale, ricevo per la prima volta un avviso di garanzia…</em>".</p>
<p><strong>In realtà non si è trattato di un battesimo giudiziario. Tre aziende di famiglia, dal 2000 a oggi, sono state condannate sette volte, tra cause di lavoro e civili</strong>. Contributi non pagati, lavoro irregolare, licenziamenti illegittimi, danni materiali. Il curriculum delle imprese dei Renzi non è immacolato come il giglio amato da Matteo. Nomi, persone e situazioni si rincorrono nel tempo. I Massone e Gabelli, Pier Giovanni Spiteri e Alberto Cappelli: i rodati partner d’affari di Tiziano sbucano fuori un processo dopo l’altro. Per intrecciarsi con l’attualità: l’accusa di bancarotta fraudolenta.<br /><br />I primi guai cominciano alla fine degli anni Novanta, a Firenze. Oltre alla Chil, coinvolgono la Speedy, di cui Tiziano Renzi ha l’80 per cento. Le due ditte fanno strillonaggio per il quotidiano La Nazione. Nella Chil anche il figlio (Matteo), appena neolaureato, ha un ruolo determinante. Per stessa ammissione dell’interessato. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: <em>"Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia"</em>. Ed è proprio questo il versante che da subito diventa il più limaccioso.<br /><br /><strong>Le prime condanne a Firenze per i contributi non versati</strong> - Il 25 maggio 1998 l’Inps, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni. Il 5 febbraio 1999 la Speedy, "rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi", e la Chil, "nella persona dell’amministratore Laura Bovoli", cioè la moglie, ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire all’Inps per le spese processuali. Nella sentenza, il giudice Giovanni Bronzini, ricostruisce: "Le due società si sono avvalse di collaboratori addetti alla vendita ambulante del quotidiano La Nazione. Questi si presentavano al mattino, circa alle ore 7.00, e ritiravano il quantitativo di copie che ritenevano di riuscire a vendere e quindi andavano a collocarsi in una zona della città a loro assegnata". A quelle riunioni, racconta Giovanni Donzelli, all’epoca studente, oggi consigliere regionale in Toscana con Fratelli d’Italia, si palesava anche il futuro premier: <em>"Arrivava sul furgoncino bianco, da solo o con il padre, per consegnare i giornali e coordinare noi strilloni. Era come adesso: svelto, cordiale e brillante" <span style="color: #800000;">(...oh no!!! il futuro "dirigente" si occupava di portare col furgoncino bianco i giornali agli strilloni! Compito altamente dirigenziale! NdR)</span></em><br /><br />Il verdetto spiega pure come venivano contrattualizzati i collaboratori: <em>"Sottoscrivevano un modulo-contratto, nel quale la loro prestazione era definita di massima autonomia"</em> dettaglia il giudice Bronzini. <em>"Ma il contributo è sicuramente dovuto. I venditori ambulanti sono da considerarsi collaboratori coordinati e continuativi"</em>. I Renzi non la pensavano così: nessun contratto, contributo o tfr. Il parallelo con le polemiche di questi giorni sulla riforma del mercato del lavoro è inevitabile: <strong>pure da giovane imprenditore, Matteo Renzi sperimentava massima flessibilità occupazionale</strong>. E negli anni a cui si riferiscono le multe dell’Inps, già selezionava e gestiva i collaboratori.<br /><br />Andrea Santoni, commerciante fiorentino, 36 anni, venne arruolato nell’estate del 1996: <em>"Un’amica mi parlò della possibilità di fare qualche soldo" ricorda con Panorama. "Suggerì di chiamare Matteo. Così feci. Disse di raggiungerlo a Rignano, nella sede della ditta. Lì spiegò come funzionava il lavoro. I pagamenti erano in contanti, in base ai quotidiani venduti. Non mi fece firmare nulla. Né io chiesi niente, del resto"</em>. Il 5 febbraio 2002 la Corte d’appello di Firenze conferma la sentenza di primo grado: i contributi dovevano essere versati. Viene smontato anche l’ultimo baluardo difensivo in cui si sosteneva che i venditori non avevano diritto al contratto perché il loro lavoro non era costante. <em>"La continuità dell’impegno dei circa 500 strilloni emerge indiscutibilmente"</em> sottolinea invece il giudice. L’appello della Speedy e della Chil è dunque respinto. <strong>La parola definitiva la scrive la Cassazione il 28 settembre 2004: il ricorso dei Renzi è privo di fondamento.</strong><br /><br /><strong>Le grane genovesi</strong> - A dispetto però delle tre sentenze sfavorevoli, la gestione dei collaboratori non sembra variare. Agli inizi del 2000, ormai defunta la Speedy, la Chil aveva cominciato a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Ma anche le attività imprenditoriali sotto la Lanterna hanno riverberi processuali. Che <strong>sfoceranno il 19 giugno 2013 in una doppia condanna del Tribunale di Genova</strong> per due diverse cause intentate da ex portatori di giornali. Nella prima, il giudice Enrico Ravera obbliga la Chil Post, nata nel frattempo dalle ceneri della Chil, a risarcire, in solido con la Eukos distribuzioni, a cui aveva affidato un subappalto, Maurizio L. M., impiegato tra il 2005 e il 2006.<br /><br />Ed è qui che vecchie carte processuali cominciano a intersecarsi con l’inchiesta genovese. Tra i soci della Eukos, fallita a luglio del 2012, c’è pure Giovanna Gambino, compagna di Mariano Massone, oggi indagato assieme a Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La maggioranza delle quote è di Alberto Cappelli, 65 anni, di Acqui Terme. Tra le sue cariche c’è anche quella di amministratore della <strong>Mail Service, fallita nell’ottobre del 2011. L’ennesima bancarotta della stessa compagnia di giro su cui stanno indagando i magistrati.</strong> Cappelli, infatti, aveva ereditato il timone della Mail Service da Massone, tre anni addietro. Che a sua volta aveva sostituito Tiziano Renzi: amministratore per due anni, dal febbraio del 2004 allo stesso mese del 2006. <strong>Una catena che ricorda il fallimento della Chil Post, ceduta da Renzi a suoi sodali in affari prima dello sfacelo</strong>.<br /><br />I magistrati ipotizzano che i Massone, Gabelli e Cappelli siano delle teste di legno. Caronte che avrebbero traghettato queste imprese da un inferno finanziario all’altro. In cambio di cosa? E le controversie giudiziarie hanno contributo alla decisione di sbarazzarsi delle aziende? A Chil Post ed Eukos l’ex collaboratore Maurizio L.M. aveva chiesto un sostanzioso risarcimento per "differenze retributive, ferie, permessi, mancati riposi e preavvisi". Assicurando "di aver reso le suddette prestazioni in regime di subordinazione, pur non regolarizzato". <strong>Tecnicismi a parte, un classico caso di lavoro nero</strong>. Perché, spiega il giudice, <em>«l’attività svolta dal ricorrente deve considerarsi di lavoro subordinato»</em>. Chil Post ed Eukos vengono dunque condannate a pagare 4.339 euro per stipendi arretrati e 439 euro di tfr.<br /><br />Lo stesso giorno della sentenza, il 19 giugno 2013, il Tribunale di Genova affronta una causa analoga. Che si conclude con <strong>una nuova pena inflitta alla Chil Post</strong>: il pagamento, sempre in solido con la Eukos, di 4.684 euro a Manuel S., in servizio dal 2001 al 2005. La Chil post, però, viene tirata anche dentro una causa civile, dopo la denuncia della Genova Press, che lamentava danni a un locale concesso in affitto. Una piccola bagattella, insomma. Tanto che in primo grado, il 17 giugno 2011, la richiesta viene respinta. Mentre in Appello, il 16 maggio 2012, è deciso il risarcimento di 1.750 euro, vista "l’asportazione delle pareti divisorie degli uffici".</p>
<p><strong>La causa per licenziamento illegittimo</strong> - La Chil e la Speedy non sono tra l’altro le uniche aziende di famiglia a essere rimaste invischiate in contenziosi. C’è un’altra srl, la Arturo, ad avere creato patemi processuali. Fondata all’inizio del 2003 da Tiziano Renzi, che detiene il 90 per cento delle quote. Oggetto sociale: produzione di pane e panetteria fresca. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come Omoigui E., un nigeriano, impiegato nelle consegne notturne dall’ottobre 2001 ad aprile 2007. Solo il 7 febbraio 2007 è però assunto come co.co.co. a progetto dalla Arturo, amministrata da Tiziano Renzi fino al 20 marzo dello stesso anno. Giorno in cui, al suo posto, entra in carica Pier Giovanni Spiteri, amico e sodale di una vita. Il 13 aprile 2007 Omoigui E. viene allontanato. A ottobre l’amministratore della Arturo diventa Antonello Gabelli, pure lui indagato per bancarotta fraudolenta della Chil Post. <strong>La vita imprenditoriale della Arturo sarà ancora breve. Il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore: Tiziano Renzi</strong>.<br /><br /><strong>L’azienda viene comunque denunciata da Omoigui E. Il 20 settembre 2011 è condannata dal Tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il suo licenziamento illegittimo:</strong> <em>"Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso"</em> scrive il giudice, Margherita Bossi. Al nigeriano sono riconosciuti anche 3.947 euro. Quasi 90 mila euro, in totale, che probabilmente non vedrà mai. Come del resto i suoi ex colleghi usciti vittoriosi dal tribunale. Una sequela di fallimenti ha spazzato via ogni pretesa risarcitoria. Un epilogo che non ha sorpreso né querelanti né tantomeno avvocati. Già il giudice Bossi aveva bacchettato il "comportamento processuale" della Arturo e della Eukos: "I cui legali rappresentanti neppure si sono presentati a rispondere all’interrogatorio formale, senza addurre alcuna giustificazione" sferza il giudice. Aggiunge il magistrato: "Arturo srl, rimanendo contumace, è rimasta inadempiente al proprio onere probatorio". Compito che sarebbe spettato al liquidatore della società: Tiziano Renzi.<br /><br /><strong>Quel prestito da mezzo milione di euro</strong> - I nuvoloni di questi giorni sono però ben più densi. Il sospetto dei magistrati è che la Chil Post, l’8 ottobre 2010, sia stata svuotata della polpa con la cessione di un ramo d’azienda alla Eventi 6, gestita dalla madre e dalle sorelle del premier. Valore della compravendita: appena 3.878 euro. Anche se il bilancio del 2009 era stato chiuso con 4,5 milioni di fatturato e quasi 36 mila euro di utili. Il 14 ottobre del 2010, sei giorni dopo la cessione, quel che resta della Chil post viene venduto a un eterodiretto ultrasettantenne, Gianfranco Massone, per 2 mila euro. E l’amministratore diventa Gabelli. La società finisce rapidamente nel camposanto dei fallimenti. <strong>È il febbraio del 2013. Un anno più tardi la Procura di Genova indaga Renzi, i Massone e Gabelli per bancarotta fraudolenta</strong>.<br /><br /><strong>Tra i debiti mandati al macero spicca quello con la Banca di Credito Cooperativo di Pontassieve: quasi mezzo milione di euro. Presidente dell’istituto è Matteo Spanò, baldo quarantenne, fraterno amico del presidente del Consiglio</strong>. Un debito che la Chil Post si portava dietro da anni. La nota integrativa al bilancio 2010 dettaglia: al 31 dicembre del 2009 era di quasi 191 mila euro. Nell’esercizio seguente sale a 259 mila euro. Poco più avanti, il 21 maggio del 2011, Spanò, dal 2008 nel cda della banca, diventa presidente. Qualche mese dopo, il debito finisce a Massone assieme alla Chil. Riappare a maggio del 2013, nell’elenco dei creditori stilato dal curatore fallimentare: 496.717 euro. Tiziano però assicura di essere sereno. La mattina di lunedì 22 settembre, passato qualche giorno dalla proroga delle indagini, il cielo di Pontassieve era terso. Intorno alle nove, davanti alla sede del Credito cooperativo in piazza Cairoli, Tiziano Renzi parlottava e rideva con Spanò e altri due dirigenti della banca. <strong>Lo sguardo era il solito: spavaldo e sicuro. Per ricordare a tutti chi è il padre di cotanto figlio.</strong></p>
<p><em>Antonio Rossitto e Duccio Tronci</em></p>
<p><span style="font-size: 8pt;"><em>0101/0745/0900</em></span></p>
<p style="text-align: right;"><strong><span style="font-size: 8pt;"><em><a href="http://www.typepad.com/site/blogs/6a00d83451654569e200d83451654869e2/post/compose" target="_self" title="">edit</a></em></span></strong></p>

domenica 21 dicembre 2014

Renzubblica e i sondaggi su Renzi: peggio di Euromedia quando faceva i sondaggi pro-Berlusconi

In questo caso, la colpa non è di Ilvo Diamanti e della Demos, che hanno fatto - bene - il loro lavoro mensile. Ma si resta esterrefatti, dopo aver guardato le tabelle, nel leggere il titolo e l'articolo di Renzubblica...

Demos-20141221-tit
Il titolo di Renzubblica

Poi si guardano le tabelle, e si scopre che l'entusiasmo di questo giornale (che leggo dal giorno della fondazione, ma che forse abbandonerò), è tutto fondato su di un rimbalzino in dicembre dello "zerovirgola", dopo mesi di crollo verticale in tutti i parametri.

Allora pubblichiamo le tabelle, e lasciamo i lettori liberi di farsi una propria opinione.

Le intenzioni di voto

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Le intenzioni di voto per il PD renzino, dopo aver toccato un massimo del 45,2% a giugno, a ridosso della "marchetta 80 euri", sono precipitate al 37% in sei mesi. E' questo, che colpisce Renzubblica? No!!!! E' il rimbalzino tecnico di 0,7 punti in dicembre, largamente contenuto nel margine d'errore di un sondaggio basato su circa 1550 interviste. Ma prendiamolo pure per strutturale, e guardiamo cosa è successo: è successo che in sei mesi il PD perde 8,2 punti, cioè 1,36 punti al mese, cioè 16,4 punti in proiezione 12 mesi.

Nel frattempo la Lega di Salvini (perennemente irriso dallo statista di Frignano), guadagna 8,6 punti.

La popolarità del Governo

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Anche su questo parametro Renzubblica è felice... Caspita, il Governo ha guadagnato 3 punti in dicembre! Renzubblica evita accuratamente di sottolineare che ciò avviene dopo un autentico crollo di 13 punti in un solo mese (fra ottobre e novembre), e che il "consolidato" fra Giugno e Dicembre parla di un calo di 23 punti, o - se preferite - di 3,83 punti al mese di media...

Ma forse è il Governo che va male, mentre Renzi himself fa scintille... Ora, a prescindere dal fatto che chi sta al governo (inclusi Speranza, la Boschi e la Pinotti, nonchè la "ladylike" Moretti) non li ho scelti io, giuro... e che quindi chi ha scelto questa gente non può scaricarsi della responsabilità dei giudizi derivati sul governo, quello che segue è un giudizio sul solo renzino. Turra robo sua, solo roba sua:

Il "gradimento" del c.d. "leader"

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Fatti i conticini??? Qui Renzubblica non ha neanche il conforto del "rimbalzino tecnico" al quale aggrapparsi. Dal massimo storico di Giugno 2014 (il dopo-marchetta) a dicembre, e cioè nei soliti sei mesi, El Gordo perde ben 24 punti, e cioè la bazzecola rotonda di 4 punti al mese.

Certo che per sostenere uno così con delle argomentazioni così, ci vuole un bel coraggio... (o la assoluta necessità di cercare di tenersi buono il governicchio?) I problemini di De Benedetti con "Tirreno Power" e la famigerata centrale elettrica a carbone di Vado Ligure devono essere ben gravi, se vengono commissionati articoli del genere, non firmati, a qualche borsista di passaggio a Renzubblica...

Tafanus

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venerdì 19 dicembre 2014

Virna Lisi obituary (The Guardian)

...Virna Lisi vogliamo ricordarla attraverso le parole del "Guardian", che da buon giornale inglese, raramente disposto ad elogiare l'Italia e gli italiani, è proprio per questo meno sospettabile di "coccodrillismo giornalistico. A noi di Virna Lisi mancheranno la sua voce da unghie sulla lavagna, l'ironia che trapelava da ogni suo sguardo e da ogni suo gesto, l'anti-divismo...
 
Actor who tired of her ‘new Marilyn’ image and left Hollywood for success in Europe
Virna Lisi

Virna Lisi gave a performance of passionate credibility in Stanley Kramer’s "The Secret of Santa Vittoria" (1969) (Source: John Francis Lane - The Guardian)

In the 1960s, like many other female Italian actors of the time, Virna Lisi was tempted to try her luck in Hollywood. However, after films in which her co-stars included Jack Lemmon, Tony Curtis and Frank Sinatra, she returned to Europe, where she had painstakingly built up a reputation, particularly in Italy and France. It was in these countries that Lisi, who has died aged 78, had the opportunities to show her mettle.

She gave a powerful performance as Friedrich Nietzsche’s neurotic sister, Elisabeth, in Liliana Cavani’s controversial Al di là del Bene e del Male (Beyond Good and Evil, 1977). Her portrayal of the scheming Catherine de Medici in La Reine Margot (1994), Patrice Chéreau’s study of religious carnage and romantic intrigue at the French court at the time of the St Bartholomew’s Day massacre, brought her the best actress award at Cannes that many had expected to go to Isabelle Adjani, in the film’s title role.

She was born Virna Lisa Pieralisi in Ancona, on the Adriatic coast, where her father had a marble exporting business. When the family moved to Rome in the early 1950s, Virna was doing well at school and there were plans for her to go to business college. However, in 1953, a friend of the family, the singer Giacomo Rondinella, persuaded the producer of the film he was making to give her a test, and she got the part. The film, E Napoli Canta (And Naples Sings), would be soon forgotten, but it began a career for Lisi, who appeared in more than a dozen movies over the next two years.

She then had her first leading role, in a film by one of the emerging generation of leftist directors, Francesco Maselli – La Donna del Giorno (The Doll That Took the Town, 1957).

While appearing in a Roman theatre production in 1959, Lisi was persistently courted by an architect, Franco Pesci. They married in 1960 and soon had a son, Corrado.

Meanwhile, she appeared with the two musclemen heroes of the moment, Steve Reeves and Gordon Scott, who played the twins of early Roman legend, Romulus and Remus, in Sergio Corbucci’s Romolo e Remo (1961). Even in this historic spectacular, she was able to bring depth to a glamorous but spineless heroine invented by six scriptwriters (including Sergio Leone). She later commented good-humouredly: “I weighed less than 50 kilos at the time, but the muscular Steve Reeves dropped me at the first take when he had to carry me into Romulus’s tent to seduce me.”

Lisi made several films in France, including Les Bonnes Causes (Don’t Tempt the Devil, 1963), directed by Christian-Jaque, who then cast her in the role that brought her first international attention, in La Tulipe Noire (Black Tulip, 1964). As the heroine to Alain Delon’s dashing swashbuckler, she combined sexiness with dexterity. Shortly afterwards, her first Hollywood offer arrived, to play opposite Lemmon in Richard Quine’s tongue-in-cheek romantic comedy How to Murder Your Wife (1965), for which the blonde Lisi was given a platinum gloss.

Though she enjoyed her American experiences and appreciated the professionalism she encountered, Lisi soon tired of the “new Marilyn” image foisted upon her. She accepted becoming a cover girl but refused a lucrative offer to pose for Playboy. Her two other Hollywood films were Assault on a Queen (1966), with Sinatra, and Not With My Wife, You Don’t! (1966), with Curtis and George C Scott.

Returning to Italy, she turned down Dino De Laurentiis’s offer to play Barbarella (the role that Jane Fonda accepted), preferring instead to appear in Pietro Germi’s scintillating satire on Italian provincial mores, Signori e Signore (The Birds, the Bees and the Italians, 1966).

In 1968, she was paired with George Segal in Il Suo Modo di Fare (Tenderly, or The Girl Who Couldn’t Say No), an offbeat and sophisticated romantic comedy written and directed by Franco Brusati. In Stanley Kramer’s outlandish The Secret of Santa Vittoria (1969), alongside bombastic performances by Anthony Quinn as a combative mayor and Anna Magnani as his rancorous wife, Lisi gave passionate credibility to the local countess who cedes to the amorous advances of Hardy Kruger’s commandant.

She starred with William Holden in the weepie L’Arbre de Noël (The Christmas Tree, 1969) and appeared in a British-produced film, The Statue (1971), alongside David Niven, “the co-star with whom I felt most at ease”.

For Alberto Lattuada’s La Cicala (The Cricket, 1980) she had to put on weight to play a grotesque singer, contrasting with the nymphet played by Clio Goldsmith. She starred in one of Luigi Comencini’s last and most underrated films, Buon Natale, Buon Anno (Merry Christmas, Happy New Year, 1989): she and Michel Serrault were an ageing couple who rekindle their passion.

After her success in La Reine Margot, she won further praise as the grandmother-narrator in the screen adaptation of Susanna Tamaro’s bestselling novel Vai Dove Ti Porta il Cuore (Go Where Your Heart Takes You, 1996). This was directed by Cristina Comencini, Luigi’s daughter. The two women went on to make a much better film, Il Più Bel Giorno della Mia Vita (The Best Day of My Life, 2002), in which Lisi was a mother coping with the amorous problems of her three grown-up children; her final role came in Cristina’s comedy Latin Lover, due for release next year.

Lisi received career achievement prizes at the David di Donatello awards and the Venice film festival, and in later years did much television work.

Franco died last year. She is survived by Corrado and three grandchildren.

• Virna Lisi (Virna Lisa Pieralisi), actor, born 8 November 1936; died 18 December 2014


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mercoledì 17 dicembre 2014

Mezzi sicuri per ammazzare un paese: centrali nucleari, ponti sullo stretto, Olimpiadi...

Quando ho sentito l'Annunciatore dire che avrebbe candidato l'Italia per le Olimpiadi 2024, ho pensato che stesse solo lanciando una minchiata a mezz'aria "per vedere l'effetto che fa"... Invece parlava sul serio, e non c'è niente di più comico del nostre venditore di pentole antiaderenti quando parla sul serio.... Con rarissime eccezioni, le Olimpiadi sono senza alcun dubbio il sistema più sicuro: quasi infallibile.

Ieri, su Repubblica cartaceo, c'erano due articoli che sembravano sostenere tesi opposte, solo che ad una lettura attenta mi è sembrato che sostenessero con sistemi diversi tesi molto vicine. L'articolo apparentemente favorevole era di Francesco Merlo, quello nettamente contrario era di Federico Fubini, uno degli ultimi giornalisti politici dalla testa lucida rimasti su Renzubblica.

Mezz'ora fa, mi accingevo a pubblicare i due articoli "side-by-side". Con grande sorpresa, ho scoperto che i due articoli erano già spariti dall'edizione online. Strano... perchè in genere gli "articoli d'autore" resistono in home-page per qualche giorno... Invece li ho dovuti cercare nell'archivio, come roba di un mese fa. Quello di Fubini l'ho trovato sotto due titoli monchi: uno si apriva, l'altro no. Quello di Francesco Merlo invece era in archivio, ma cliccando sul titolo di apriva questo disarmante annuncio:

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Per fortuna Francesco Merlo ha un suo blog, sul quale archivia tutta la sua produzione, salvandosi da queste strane "sepolture in vita" di Renzubblica. Quindi, per fortuna, riesco quindi a mettere in fila i due articoli. Eccoli:

La candidatura di Roma per il 2024 - Olimpiadi per non morire (di Francesco Merlo)

Francesco-merloLe Olimpiadi per non morire. Sembrerebbe, questa candidatura ai giochi del 2024, l’ultima cosa da fare. E invece è la prima. E non per la vanagloria dell’Italia dei carini con la retorica del made in Italy esibita ieri da Giovanni Malagò, tedoforo dell’opacissima trasparenza del Coni. Né si può fingere, come ha fatto il sindaco Marino, che Roma “città per bene” non somigli a Buzzi e Carminati e sia solo vittima e non anche complice, forse persino peggiore di loro.

Il punto è che quando tocchi il fondo solo il superfluo trascina il necessario. E Roma, che da sola non ce la fa, ha bisogno delle Olimpiadi per rinascere o fallire. E il 2024, che non è poi così lontano, può diventare il nuovo Giubileo, il piccolo Big Bang della città smarrita che si ritrova nell’ universo dello sport.

Sconvolgendo, per cominciare, l’arretratezza del sistema viario e il degrado del manto stradale, Roma può diventare più Roma, perché le Olimpiadi accelerano e parificano, e puliscono pure le strade. E anche con i bilanci in rosso sarebbero comunque ricchezza, risorse, opportunità, nuovi posti di lavoro, il riscatto di una città che è la grande bellezza svillaneggiata dal mondo perché “la corruzione a Roma – ha scritto il New York Times – solleva nuove domande circa la capacità dell’Italia di riformarsi”. E le Monde ha parlato di una grande piovra nera. Insomma Carminati e Buzzi degradano a suburra non una città ma il cuore dell’Italia, il suo essere Universo senza frontiere e in perenne esposizione. E qui si capisce bene che se l’Expo ‘espone’ Milano nel senso che la mette a rischio perché nella lingua italiana ‘esposizione’ è anche il conto bancario scoperto, ed ‘esposto’ è l’avvio di un’azione giudiziaria, le Olimpiadi di Roma esporrebbero l’intero paese, la macchina della nuova Italia, lo Stato, il governo Renzi che, per la prima volta, si misurerebbe con la concretezza di un ottimismo sinora soltanto declamato. Il “cambia verso” qui diventerebbe cantieri, treni e navette, ex mercati da trasformare in stadi, il ripristino dell’Accademia della scherma di Luigi Moretti e di tutto il Foro Italico che sarebbe un magnifico parco olimpico, del Velodromo, della città dello sport mai finita con le piscine di Calatrava, qualche nuovo Palazzetto, edifici in disuso da far diventare arene, ex cinema da riadattare …

Non affari per i soliti costruttori-corruttori, per la canea avida degli speculatori e palazzinari romani che non appena ieri Renzi e Marino e Malagò hanno pronunziato la parola Olimpiadi si sono leccati i baffi di cemento, ma “la svolta buona” della grazia e della sapienza edificatoria combinata con l’intelligenza urbana e sorretta dall’interesse economico lecito. Insomma, un’operazione laica, simbolica e keynesiana, la fine di un lungo ciclo di handicap, come avvenne nel 1960 nella Roma del miracolo economico; a Barcellona che smise di essere provincia; a Torino, che i giochi invernali restituirono alla cultura e all’eleganza; a Tokio che nel’ 64 divenne metropoli globale, a Sydney che si trasformò in capitale dell’energia ambientalista, e persino a Monaco che nel ‘72, nonostante la strage del Settembre nero, si fece vetrina della nuova economia bavarese.

Certo, ci sono anche città che non ce l’hanno fatta e cito per tutte Atene, il cui default cominciò con i cinque cerchi. Tanto più che a Roma qualsiasi investimento oggi corre il rischio della mafia. Ma forse, contro la mafia, non bisognerà più investire a Roma? Dobbiamo abbandonare la capitale d’Italia? E non sarebbe, il rinunciare al progresso e allo sviluppo per paura della mafia, la maniera più vile di arrendersi alla mafia?

Per alcuni la mafia cresce nella povertà e nel sottosviluppo, per altri nella ricchezza e nello sviluppo, ma dovunque si combatte con polizia e magistratura, con la dura pazienza della politica, con l’eroismo dell’impegno quotidiano, con il rischio d’impresa che è fatto di innovazione e perciò anche di Olimpiadi.

Una scossa tellurica per ricominciare, dunque; per guardarsi allo specchio, farsi il chek-up e progettare il proprio futuro in competizione, pensate, anche con Parigi, che ha posto la candidatura dopo che le Monde aveva chiesto ai francesi se fosse meglio “l’Expo del 2020 o le Olimpiadi del 2024 per uscire dalla crisi e togliersi di dosso il pessimismo” .

Più scaltro Marino vuole togliersi di dosso er cecato e sfilarsi dal mondo di mezzo. E c’è il rischio che Renzi creda di cavarsela con l’ennesimo annuncio. Tanto il 2024 è lontano. E invece bisognerebbe riuscirci davvero a gareggiare , in trasparenza , con il resto del mondo. E sarebbe fantastico che partendo in coda vincessimo l’eterno derby perché “le palle di nuovo gli girino” a loro che soffrono dell’antichissimo “complesso di Vercingetorige”, il gallo che già una volta le buscò.

Ma, appunto, questa è solo scienza triste. John Maynard Keynes diceva che sarebbe «splendido» se gli economisti riuscissero a essere «umili e competenti come dei dentisti», perché non lo sono. Ma anche altri aspetti della vita di una nazione permettono di dubitare della praticabilità di una candidatura di Roma. Il governo la presenta mentre fa i conti con sconvolgenti casi di corruzione emersi quasi ovunque ci siano lavori pubblici, anche di consistenza minima.

I miliardi del Mose di Venezia, i commissariamenti decisi per alcune delle grandi imprese dell'Expo, il racket degli appalti che ha trascinato il Comune di Roma al default e poi ha continuato ad infierire. È vero che, come ha ricordato ieri il commissario anti-corruzione Raffaele Cantone, le Olimpiadi di Torino hanno dimostrato che anche in Italia possono svolgersi grandi eventi nella legalità. Ma su questo fronte il Paese ha già fatto abbastanza per essere credibile? Toccherebbe al comitato promotore di Roma 2024 spiegarlo ma, malgrado la svolta pubblica del premier Matteo Renzi, sembra che non sia ancora ben formato né abbia un proprio budget da spendere.

A discolpa di Roma, va detto che non tutto finirebbe lì. Competizioni si terrebbero a Milano, Napoli e a Firenze, per qualche ragione, andrebbe la pallavolo. L'ultima volta che la città ha vinto uno scudetto in questa disciplina correvano gli anni ‘70 e andò alle ragazze dello Scandicci: metafora perfetta del lavoro che resta da fare per tornare credibili. Di solito le Olimpiadi migliori e più fertili di crescita futura sono sempre andate a città risorgenti: Londra dalla grande crisi, Pechino dalla povertà, Barcellona da 40 anni di franchismo. Roma e l'Italia risorgenti non lo sono ancora: se quei soldi ci fossero, dovremmo forse spenderli per ridurre le tasse, cambiare la giustizia, in modo da ridare lavoro stabile agli italiani. Allora saremo pronti a candidarci di nuovo ai Giochi, per festeggiare la nostra rinascita un'estate intera.

Franesco Merlo

Insomma, l'articolo di Merlo - che a leggere solo i titoli e l'incipit sembrava favorevole, alla fine si rivela per quello che è: una sfilza di dubbi sulle capacità etiche, economiche, organizzative del nostro paese di cialtroni, e sulla "reliability"del venditore di pentole. Il 2024 è lontano, ma il 2015 (anno entro il quale bisogna formalizzare e garantire l'impegno), è domani. Sarà per questo che l'articolo di Francesco Merlo è sparito non solo dalla home-page, ma anche dall'archivio di Renzubblica? Tafanus

Olimpiadi 2024: un disastro annunciato che affosserà i bilanci (di Federico Fubini - Repubblica)

Federico-fubiniSedici anni fa, un ministro del Tesoro chiamato Carlo Azeglio Ciampi firmò un impegno a nome dell'Italia: avrebbe coperto spese fino a due miliardi di euro (in denaro attuale) per una città che si candidava alle Olimpiadi d'inverno. Torino. E quando i delegati del comitato promotore andarono in Australia per farsi conoscere, si resero conto che mancava un tassello: dovettero stampare nuove brochure, con inclusa una mappa d'Europa nella quale Torino era chiaramente situata rispetto a Roma, Milano, Parigi.

Quella città candidata andava rimessa sulla carta del mondo, perché ne era sparita dopo i lunghi anni di crisi della Fiat. Non c'è dubbio che questa sia un'assonanza con la proposta di Roma per le Olimpiadi estive 2024, avanzata dopo sei anni di recessione italiana, ma i parallelismi finiscono qui. Non solo perché a Roma si possono rimproverare molti difetti, ma non di non essere già sulla carta. In realtà anche la scienza triste, l'economia, fa sorgere dubbi sulla praticabilità della candidatura di un Paese che oggi ha un debito al 130% del Pil: sei volte più alto rispetto a quando ospitò le prime Olimpiadi romane nel 1960.

I conti sono sotto gli occhi di tutti. Le Olimpiadi d'inverno di Torino alla fine sono costate 5 miliardi di euro, per metà coperti da denaro pubblico, mentre per quelle estive il successore di Ciampi, Pier Carlo Padoan, dovrebbe sottoscrivere una garanzia di copertura fra le tre e le dieci volte superiore. Un "pagherò" (se vince Roma) che va dai sei ai venti miliardi di euro e va firmato non fra dieci anni ma fra dieci mesi, quando le proposte andranno depositate.

I Giochi estivi più economici ed efficienti della storia recente, Londra 2012, sono costati circa 160 euro in media per ogni suddito di Sua Maestà, 12 miliardi di euro di denaro pubblico, e restano un raro esempio di gestione oculata. Per molti altri eventi del genere, secondo le stime del National Geographic , le previsioni iniziali di spesa sono state regolarmente sfondate: a Pechino 2008 del 4%, ad Atene 2004 del 60%, a Sydney 2000 del 90%, ad Atlanta del 147% e a Barcellona 1992 del 417%. Montreal 1976 ha impiegato tre decenni a rientrare dai costi.

A Roma, dove la società di trasporto pubblico locale ha chiuso senza perdite un solo bilancio negli ultimi 11 anni, come finirebbe? Se la storia dell'Expo di Milano 2015 insegna qualcosa, finirebbe in senso opposto a Atene, Atlanta, Sydney, o agli sprechi dei mondiali di calcio Italia ‘90. Invece di pagare troppo, per mancanza di risorse Roma rischia di poter spendere molto meno di quanto previsto e di quanto necessario. All'Expo di Milano sta già succedendo, con la Regione e il governo che gareggiano nel trattenere e negare i finanziamenti, mentre l'evento promette di essere meno ricco e attraente del previsto.

Federico Fubini - Repubblica

In memoria di "Italia '90"

Questo immenso scheletro di cemento si trova a cavallo tra i comuni di Milano e Ponte Lambro. Costruito per i mondiali di calcio del 1990, non è mai stato finito e 20 anni dopo rimane vuoto e abbandonato.  Un servizio di Chantal Dumont e Leandro Diana, con l'aiuto di Luca Ragone.

Vi lascio con questo incubo, e con una buona notizia fresca di giornata: oltre alla candidatura da ridere dell'Italia, da oggi non c'è solo quella di Parigi, ma anche quella di New York. Possiamo sperare. Di non farcela.

Tafanus

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Tafanus: Ricciardi inchioda Meloni in Aula: “Ma cosa festeg...

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