lunedì 17 ottobre 2016

La tecnica dei "calzini turchese" fa altri proseliti: da Brachino di Canale 5 ad Alessandra Longo di Renzubblica

Alessandra-longoHo sempre stimato la giornalista di Repubblica Alessandra Longo, che ho letto per anni con interesse. Oggi devo constatare che anche le migliori, a volte, sbagliano. Capita anche alle donne, talvolta - anche se non dotate di "pisello indirizzabile", e quindi costrette a "farla da sedute", di pisciare fuori dal vaso (mi scuso per il francesismo). Oggi è capitato, ahimé, ad Alessandra Longo.

Non so se Alessandra Longo abbia semplicemente avuto una caduta di stile, o se oggi si sia ritrovata improvvisamente a corto di argomenti (...strano... c'è tutta una finanziaria di cui si potrebbe proficuamente discutere...), o se si sia adeguata - più realista del re - alla "nuova aria" che tira nel suo giornale, da quando Repubblica ha subito la mutazione genetica in "Renzubblica"... Sta di fatto che non mi riesce facile capire le differenze stilistiche ed etiche fra il Brachino sbracato di Canale 5 annata 2009, che attaccava il giudice Mesiano perchè portava - addirittura! - un paio di calzini turchese, e scarpe bianche, e fumava!, con il famoso magazine "CHI" che tre anni dopo seguiva la Bocassini, e ne scopriva le magagne (calzini a righe, fumava - anche lei - ed essendo in strada non ha ingoiato la cicca a fine sigaretta, ma l'ha buttata per terra).

Ancor più difficile mi risulta oggi capire lo "sgub" di Alessandra Longo, che dedica un box a Virginia Raggi, colta dalle telecamere mentre si produce in una franca risata durante una riunione coi suoi. Non fraintendiamo. La Raggi non stava facendo, come la cricca del terremoto de l'Aquila, una risata su una disgrazia, pensando ai milioni che sarebbero piovuti grazie al terremoto... La Raggi rideva di se stessa, e della sua incapacità di fermare il video, una volta esaurita la discussione politica. Ovviamente il video è finito in rete, com'era d'altronde programmato, e poi ripulito dalla coda con la criminosa risata della trentenne Raggi.

Ma ad Alessandra Longo, che deve aver dato le dimissioni da Repubblica, e dev'essersi fatta assumere da Renzubblica, non la si fa, e lancia il suo anatema:

"...e giù altre risate. Il video rimane per un po' visibile, poi viene cancellato. Ma fa il giro del web lo stesso. Resta il sapore di quell'allegria nonostante le rovine da gestire..."

A noi resta invece il sapore amaro di un sospetto: che anche Alessandra Longo sia diventata più realista del re, che si stia trasformando da giornalista in badante del renzismo (come Eugenio Scalfari, come De Benedetti, come De Marchis e come gran parte della redazione. Eppure oggi ce ne sarebbero di argomenti da trattare... I 140 militari da inviare ai confini dell'impero russo, ad esempio... Meno di tre autobus. Militarmente non serviranno a un cazzo, ma politicamente serviranno a peggiorare i nostri rapporti con qualcuno che ci fornisce una bella fetta del gas di cui abbiamo bisogno. Oppure la "limosina" di 10 euro all'anno (ad occhio, 27 lire al giorno) contrabbandate da Renzi come "riduzione delle tasse". Ma alla Longo non la si fa! La Raggi non può permettersi di ridere mentre Roma affonda (e pazienza se ad aprire le falle nello scafo siano stati decenni di sgoverno della città da parte di altri, PD incluso).

No, cara Alessandra, la politica è - o dovrebbe essere - altro. I tre milioni di elettori PD che il renzismo ha mandato al macero (l'unica cosa che sia riuscito a rottamare), non li si riconquista con lo sgub della Raggi che - criminale! ride della sua incapacità di fermare un "coso" che la riprende!  Li si riconquista facendo qualcosa di sinistra, o almeno smettendo di fare solo cose di destra. Troppo difficile da capire. Troppo difficile da capire che, continuando sulla strada dei "calzini turchese", una risata vi seppellirà? TGroppo difficile capire che il vostro vero nemico elettorale non è Cuperlo, ma il M5S, e che ci sarebbe un'ampia scelta di argomenti seri su cui attaccarli, che non la franca risata a-politica di una giovane donna di trent'anni?

Tafanus

P.S.: scusandomi in anticipo per l'autocitazione, riporto IL LINK ed un breve incipit di un nostro vecchio post, per coloro che non ricordino la storia dei calzini turchese:

IL CASO MESIANO - Nel 2009, nel corso del programma Mattino Cinque, il giornalista Claudio Brachino lanciò un servizio sul giudice Mesiano (che condannò Fininvest a pagare quasi 750 milioni di euro, in appello diventatati 560, a titolo di risarcimento alla Cir di De Benedetti) sottolineando i «comportamenti stravaganti» dello stesso. Nonostante le scuse a Mesiano, Brachino fu sospeso dall'Ordine dei giornalisti per 2 mesi (Fonte: Corsera)

Il "caso" Mesiano: calzini turchese!

# La storia continua sul post originario. Il video invece non si apre, perchè è stato fatto rimuovere da youtube da chi se ne vergognava. Purtroppo né Alessandra Longo, né Renzubblica, potranno rimuovere né dal web, né dalla carta stampata, questo nuovo caso di calzini turchese.

giovedì 13 ottobre 2016

NO, mille NO alla Costituzione riscritta da Napolitano, da Renzi, dalla J.P.Morgan, dalla signorina Grandi Firme Boschi, dal multicasacca Angelino, e dal pregiudicato Verdini

LIBERTA-GIUSTIZIA-NO

da Tommaso Montanari, vicepresidente di "Libertà e Giustizia", Comitato per il NO


Il presidente emerito Giorgio Napolitano non risponde a Salvatore Settis. Il presidente del consiglio scientifico del Louvre (un archeologo con due lauree ad honorem in diritto costituzionale) gli aveva chiesto di confermare o smentire un articolo del Corriere del 2014 in cui si diceva esplicitamente che la strada della riforma costituzionale era quella indicata dalla banca d'affari americana JP Morgan.  (di Tommaso Montanari - Huffington Post)

Napolitano ha scritto che si tratta di "domande insinuanti e aspre", e non ha risposto. Eppure la domanda era non solo legittima, ma urgente.

Matteo Renzi ha più volte detto esplicitamente che il suo modello di leader politico è Tony Blair, e ha anche più volte annunciato che dopo due mandati alla guida del governo farà come lui: andrà in giro per il mondo a fare conferenze e consulenze.

La domanda è: sarà identico anche il finanziatore? Il Financial Times ha stimato in due milioni e mezzo di sterline il compenso annuo che la JP Morgan versa a Blair, e la prima volta che Tony e Matteo hanno cenato insieme (a Palazzo Corsini, a Firenze) l'organizzatore era proprio l'amministratore delegato della banca americana.

Sarebbe del più alto interesse sapere quali politici italiani siano attualmente sul libro paga della banca: e in questi giorni Ferruccio De Bortoli ha mostrato come tali nessi abbiano pesantemente condizionato, e rischiano di continuare a condizionare, la sorte del Monte dei Paschi di Siena. Ma proprio perché questo grado di trasparenza è, da noi, inimmaginabile, una risposta di Napolitano avrebbe reso decisamente più chiara la partita referendaria.

Dobbiamo infatti ricordare che la JP Morgan ha scritto (in The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) che "Le Costituzioni e i sistemi politici dei paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un'ulteriore integrazione della regione. [...] Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. [...] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l'anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l'opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche".

Era esattamente questo il passo citato nell'articolo del Corriere del 1° aprile 2014: "Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi "improrogabile", dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L'ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro "la persistente inazione del parlamento". Spiegando che "la stabilità non è un valore se non si traduce in un'azione di governo adeguata" (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella "debolezza dei governi rispetto al parlamento" e nelle "proteste contro ogni cambiamento" alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace".

Ora, due anni dopo e in piena campagna referendaria, Napolitano trova "insinuante" la domanda di Settis: ma gli italiani hanno il diritto di sapere se stanno votando su una riforma targata JP Morgan. La vita politica italiana è malata: su questo concordano tanto i sostenitori del Sì che quelli del No. Ciò su cui si dividono è la diagnosi: e, dunque, la terapia.

La riforma costituzionale Napolitano-Renzi-Boschi è una "cura" motivata dalla convinzione che il male dell'Italia sia un eccesso di democrazia. I cittadini conterebbero troppo, il parlamento sarebbe troppo incisivo, i diritti dei lavoratori troppo garantiti, gli enti locali più vicini al territorio (le Regioni) troppo potenti. Ecco dunque la ricetta: far votare meno i cittadini (per esempio togliendo loro il potere di eleggere il Senato, che tuttavia continuerà a fare le leggi), far contare meno i loro voti (a questo serve l'Italicum), accentrare tutti i poteri in capo al governo di Roma (ecco il nuovo Titolo V della Costituzione), e così via. Nel momento in cui gli italiani sono chiamati a decidere se dar corso o meno a questa cura da cavalli, hanno il diritto di conoscere i titoli e il curriculum dei medici che la propongono.

Ora, la domanda è: possiamo fidarci del medico JP Morgan, e della sua ricetta? Davvero dobbiamo cambiare il sistema di garanzie democratiche costruite dopo il fascismo perché ce lo chiede una banca condannata a pagare una multa da 13 miliardi di dollari per aver piazzato pacchetti finanziari inquinati, ed aver quindi contribuito ad innescare quella stessa crisi che ora ci spinge a cambiare la Costituzione?

Io non credo. Sono d'accordo, invece, con ciò che un perfetto coetaneo e compagno di partito di Napolitano -Alfredo Reichlin- ha scritto sull'Unità del 30 settembre: "A me questo non sta bene. È chiaro? Io ho preso le armi per dare all'Italia un parlamento. Io ricordo i tanti che allora volevano un regime politico più "avanzato" nel senso di dare poteri più diretti al popolo (i CLN). E ricordo la risposta di Togliatti: no, il Pci vuole una repubblica parlamentare. E su ciò si fece la Costituzione. Il parlamento funziona male? Sì, ma solo il parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo "ricchi e poveri, borghesi e proletari". Non è la privativa di nessuno. Di nessuno: nemmeno della JP Morgan. O dei suoi consulenti.

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TafanusDedico queste considerazioni a tutti gli analfabeti politici che mi capita di incontrare... Tutti strenui difensori della Grande Riforma Renzi/Boschi/Alfano/Verdini. Lo faccio attraverso le parole di Tommaso Montanari e di Alfredo Reichlin, dello Huffington Post di Lucia Annunziata e di quel pericoloso sovversivo di Ferruccio De Bortoli sul Corsera, per evitare di sentirmi dare del "tuttologo" da qualcuno che ritiene "tuttologo" chiunque abbia più di 1,5 interessi nella vita... E sarebbe bello se UNA VOLTA NELLA VITA costoro rispondessero nel merito delle cose scritte, e non partendo lancia in resta col solito "...VOI CHE...", al quale ho risposto, e risponderò ancora, col solitissimo "VOI CHI?".

Già, perchè a me succede di pensare con la MIA  testa (sana o malata che sia), e non con la testa  di una "Cooperativa di Pensiero Omologato". E voglio concludere fornendo a qualcuno un ulteriore argomento di critica: ebbene si, io ogni tanto cambio idea, e talvolta mi capita di dissentire persino da me stesso.

Ricordo di aver comunicato questa cosa a qualcuno - lungo la storia ormai più che decennale di questo blog - che una volta a me, reo di aver dissentito da Travaglio che dedicava i suoi taglienti "Carta Canta" a tutti tranne che a Di Pietro (che pure di materiali e pensieri da "scontro frontale" ne aveva forniti in abbondanza, in carriera), diceva a brutto muso: "Io con Travaglio sono d'accordo sempre e comunque".

Ebbene, io a costei (era una costei) ho spiegato che io, ateo e laico, "sempre e comunque non sono d'accordo con nessuno, neanche con me stesso". Non l'ho più sentita, ma il tempo ha lenito il mio dolore per la grave perdita...

Buona giornata a tutti quelli che pensano con la propria testa, e in particolare a coloro che prima di esprimere i loro pensieri compiono un minimo sforzo per verificare la veridicità delle notizie che difendono o combattono a spada tratta.

Tafanus

 

lunedì 3 ottobre 2016

Clinton-e-trump

 

Donald Trump, 70 anni. Hillary Clinton, 69. Gli Stati Uniti, nell'era del web e dell'esaltazione della giovinezza, saranno nelle mani di un presidente anziano. Chiunque vinca (di Duluoz - L'Espresso)

Il futuro degli Stati Uniti se lo contendono due settantenni (lui del '46, lei del '47) e vederli in piedi ad aggredirsi per interminabili 90 minuti di quel primo duello televisivo, faceva venir voglia di portare loro una sedia, soprattutto a lui che alla fine sembrava il più provato. Lei molto meno, ma si sa che le donne hanno una resistenza del corpo maggiore quando ce l'hanno anche nella testa. Certo se si guarda ai presidenti degli ultimi decenni della tuttora più potente nazione del mondo, solo uno, Ronald Reagan, citato nel primo scontro da Trump come suo modello politico, aveva 70 anni al momento dell'elezione, e già all'inizio del secondo mandato, scrive Ronald Jr. nella biografia del padre, aveva avuto i primi sintomi dell'Alzheimer, figuriamoci alla fine, a 78 anni, nel 1989. Però John Kennedy era diventato presidente a 44 anni, Bill Clinton a 47, Barack Obama a 48, George W. Bush a 55 e Richard Nixon a 56. Gli altri, over 60 ma sotto i 70.

Lei, Hillary Clinton, dichiarandosi subito nonna, ha dato un senso alla sua età nella scala dei valori familiari, sapendo quanto le nonne possono essere amate e rispettate dai nipoti cui regalano ogni tanto 10 dollari. Mentre il tentativo giovanilistico di Donald Trump, con quel rado ciuffo biondo, forse parrucchino un po' "Star Trek", non è andato a buon fine, anzi pareva un errore sopra la naturale vendetta delle rughe, che in un uomo non più giovane sono spesso di massima seduzione, ma in questo caso no. Sarà perché assuefatti dai tempi della lunga parentesi Berlusconi, per la prima volta premier a 58 anni e man mano continuamente invecchiato da ringiovanimenti con bisturi e trucchi, che si circondava ai bei tempi da ministre, onorevoli e toy girl giovani e in tacco a spillo, noi non riusciamo a separare la politica dall'immagine, soprattutto televisiva.

Il premier Renzi è un belloccio eletto nel 2014 a 39 anni, e quindi giustamente con ministre più o meno coetanee, anche con riccioloni botticelliani, mentre le nuove sindache sono trentenni molto graziose e pazienza se confusionarie come la Raggi: persino i crudelissimi aspiranti premier prossimi, sono giovani e graziosi, e pare che basti. Quindi: perché gli Stati Uniti hanno deciso di assicurarsi, chiunque lo diventi dei due contendenti, un presidente comunque anziano? In tempi poi di trionfo anche solo apparente della giovinezza, quando gli adolescenti ma anche i ventenni, quelli che già possono richiedere di votare, sono pazzi per divi del web e i fashion blogger anche bambini, ignoti agli ultratrentenni. Chi mai tra questi nuovi americani diventerà follower di persone che non fanno parte del loro mondo, che sono stati giovani in era predigitale, quando i ragazzi si preparavano ad andare in Vietnam e le ragazze si sposavano vergini, con lauree prestigiose che servivano a lavare meglio i piatti?

«Il presidente è un prodotto» dice il divino Dan Draper della serie "Mad Men" che stanno ridando su Sky Atlantic: è il 1960 e la sua agenzia pubblicitaria sostiene la campagna di Nixon contro Kennedy, anche comprando tutti gli spazi della pubblicità televisiva rimasti per lanciare un lassativo e toglierli al candidato democratico: non c'è pericolo che vinca lui, sostiene il sapiente Draper, Nixon è avanti di 8 punti. Poi si sa come è andata a finire ed era meglio per Kennedy se avesse perso. (Nixon comunque ce l'ha fatta nel 1968, come appare pure nella serie finale di "Mad Men", salvo poi fregarsi col Watergate).

Quindi anche se la signora Clinton per ora è avanti nei sondaggi e ha vinto il primo match televisivo contro il suo rivale Trump, è meglio essere prudenti. È vero, il presidente è un prodotto in mano a una squadra di geniali pubblicitari che devono imporli ai consumatori soprattutto televisivi (che al primo incontro erano cento milioni) e loro stessi, i "concorrenti" tipo talent di cuochi, si adattano alla situazione mercantile, "vendono" sul video se stessi e il loro programma riferito a un consumatore preciso: tutto quello che i sondaggi hanno concluso possa interessare chi è di qua, chi è di là e chi non sa ancora se gli conviene essere di qua o di là. È in vendita non solo il programma ma anche il corpo mediatico del futuro presidente: una vera guerra questa, anche sanguinosa, pure in questo caso canuto.

Lui, Donald, un po' sovrappeso come tanti uomini anziani non solo americani, stretto in un completo blu (o nero?) che pare una corazza contenitiva, una cravatta celeste, lo sguardo privo di lampi, la bocca che si arrotonda nell'arringa, mai un sorriso, le mani che lo sostengono al leggio e che, una alla volta, si agitano per aria minacciose, con l'indice teso nel tentativo di ipnotizzare l'enorme platea. Raramente, dall'opportuna distanza, capace di volgersi verso di lei, la vispa rivale, quasi intimorito (o infastidito, una femmina…). Troppo ansioso e rustico per piacere alle signore di successo, anche repubblicane. Lei vestita di rosso, colore che attira gli sguardi, lontano da ogni luttuoso rigore, un completo pantalone semplice e classico da agile professionista, gioiellini d'oro modesti, che appena si intravedono alle orecchie, al collo al polso: una vera signora. Matura, col viso curato e luminoso, lisciato ma con qualche ruga per non infastidire le coetanee. Espressione sempre serena, anche sorridente, pochi gesti, voce ferma e gentile: quel tipo di donna insomma, troppo sicura e sapiente per non risultare antipatica al maschio tradizionale, anche democratico. Poi si sa, ciò che dovrebbe contare sono le risposte alle domande del giornalista-arbitro: quello che faranno ognuno a suo modo per un grande paese, che tra un insulto e l'altro, espresso con urbanità ma sempre insulto, viene descritto da tutti e due come precipitato nel massimo disastro economico, sociale, umano, politico, che solo lui o lei salveranno: un'America miserabile di cui non ci eravamo accorti, pensando al resto del mondo.

Certo noi italiani siamo impallinati più volte al giorno da un'ilare televisione che prospera sulla politica-fiction dedicata alle malefatte del governo più che ai suoi eventuali meriti. Lo spettacolo americano, con le due prossime puntate, dovrebbe mettere in guardia anche noi, già prostrati dai quotidiani fastidi del Sì e del No: non può essere la televisione, con tutti i suoi necrofori dell'audience, neppure quando lo scontro è a livello presidenziale, con tutto il suo bagaglio di facili promesse e di accuse reciproche di nefandezze passate, a governare una nazione.

(Duluoz - l'Espresso)

 

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