sabato 25 marzo 2017

Perchè Babbo Geppetto (alias Tiziano Renzi) decide di tuffarsi in una incredibile figura di merda?

Gusto per la "battuta" da asilo nido? (capita, spesso, che nella terza età si ridiventi infantili...). Oppure impudenza? O, ancora, sottovalutazione - trasmessa ereditariamente al figliolo Matteo - della altrui intelligenza? Dunque, costui, a "Dimartedì", con sprezzo del ridicolo, spiega che la "T" sui pizzini della Grande Corruzione, potrebbero stare per Tiziano Renzi, ma anche per Marco Travaglio... E perchè no? Potrebbe stare anche per Tacito, per Alberto Tomba, per Tardelli, per Togliatti, per Tafanus... Senonchè, unendo due sinapsi residue, persinio Tiziano (il pittore o il democristiano?) avrebbero potuto arrivare alla conclusione che solo una delle "T" in questione ha avuto rapporti - diciamo così - impropri, col giro Consip e dintorni. E che il papà dell'amico di Lotti non era - mi dicono all'anagrafe - Torquato Tasso, ma Tiziano Renzi... Ma lasciamo che sia l'indiziato numero uno d'aver preso le mazzette dalla Compagnia di Giro Consip (Marco Travaglio) a discolparsi, con parole sue... (Marco Travaglio sul "Fatto")

 

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Luca Lotti e Tiziano Renzi

L’altra sera, a Dimartedì, Tiziano Renzi (detto babbo Geppetto perché è il padre di Pinocchio) dichiarava che la “T.” sui due pizzini di Alfredo Romeo con accanto la cifra di “30.000 al mese” potrebbe non essere la sigla del suo nome, ma del mio cognome: Travaglio.

Ipotesi affascinante, se Romeo avesse incontrato il sottoscritto anziché lui (come dice l’imprenditore in un’intercettazione e come testimoniano il suo commercialista Mazzeo e il sindaco di Rignano sull’Arno); se Carlo Russo che vedeva e sentiva continuamente Romeo e contrattava le modalità di pagamento all’estero dei suoi 5.000 euro bimestrali fosse uso a pellegrinare a Medjugorie con me e non con Tiziano, e avesse scelto me e non Tiziano come padrino di battesimo del figlio; e se Romeo avesse finanziato con 60.000 euro il Fatto Quotidiano anziché la fondazione Open che fa la questua per Matteo. Ieri poi babbo Tiziano ha parlato con La Nazione per dirsi vittima della solita macchinazione e, parlando, annunciare che ora non parla, ma lo farà presto: “Venite il 16 marzo al tribunale di Firenze. C’è la prima udienza contro Travaglio e il Fatto. Credo sia pubblica… Una richiesta di risarcimento danni di 300 mila euro… Parlerò. Ormai manca poco”.

Spiace deluderlo, ma il 16 marzo non si terrà alcuna udienza che riguardi noi e lui, né a Firenze né altrove. Lo diciamo per risparmiargli un viaggio inutile. La prima udienza della causa civile intentata da babbo Renzi al Fatto sarà l’11 aprile; non c’entra nulla con la vicenda Consip (si riferisce ad articoli sui suoi affari nel ramo outlet e al fallimento di una sua società, definito “bancarotta” perché all’epoca Tiziano era indagato per bancarotta e nessuno ha mai dubitato che sia fallita); e soprattutto non sarà un’udienza pubblica e nessuno parlerà, perché nel processo civile gli avvocati si limitano a depositare carte e controcarte, poi il giudice decide. La causa T. contro T. sarà però interessante: oltreché su alcuni articoli del nostro giornale e del nostro sito, verterà sui “messaggi subliminali” e le “foto maliziose” contestati dall’“attore” (che poi è sempre T. nel senso di Tiziano). Messaggi subliminali volti a far credere che il nostro eroe, “agente di commercio”, non faccia affari anche grazie al cognome che porta, ma solo perché è sempre stato un genio del business, una versione vernacola di The Wolf of Wall Street, dotato – lo dice lui – di “una straordinaria capacità professionale ed una vulcanica energia intellettiva”.

E non da oggi, ma da quando “l’attuale premier non era neppure nato”. Ergo va risarcito per i “danni patrimoniali e non” subiti per le cose (vere) scritte dal Fatto, con una somma “non inferiore a 250 mila euro” (non si sa se al mese o all’anno o una tantum), considerando anche “il patema d’animo sofferto in relazione al contesto sociale” eccetera. In fondo è un peccato che abbia scelto il processo civile: nel penale, avrebbe potuto spiegarci come mai la sua straordinaria capacità professionale e la sua vulcanica energia intellettiva abbiano dato l’impressione all’ad di Consip Luigi Marroni di un “ricatto” suo e del suo Sancho Panza, Carlo Russo, per truccare l’appalto più grande d’Europa a favore degli amici Romeo e Verdini. E perché quella straordinaria capacità professionale e quella vulcanica energia intellettiva fossero così neglette anche in Puglia, al punto da costringere lui e Russo a chiedere un incontro al governatore Emiliano per spingere un altro affare che la loro straordinaria capacità professionale e la loro vulcanica energia intellettiva non riuscivano a concludere senza l’aiutino del presidente della Regione (che purtroppo, malgrado l’intervento di Luca Lotti, non arrivò).

Ma, visto che parliamo di denunce e tribunali, attendiamo a pie’ fermo che babbo Tiziano intenti una bella causa a Russo per aver abusato del suo cognome con Romeo e Marroni a sua insaputa, mentre lui Romeo non lo conosceva e Marroni lo incontrava solo per piazzare una statua della Madonna di Medjugorje all’ospedale pediatrico di Firenze (con gran risparmio per lo scultore, visto che secondo la Santa Sede a Medjugorje non è mai apparsa alcuna Madonna: praticamente una statua invisibile). Dopodiché, se mai Romeo confermasse che il “T.” dei 30mila euro al mese era proprio lui, denuncerà pure lui. E intanto querelerà Marroni per aver detto che lo ricattava. Poi querelerà Daniele Lorenzini, sindaco Pd di Rignano e suo medico curante, che ha raccontato ai pm come babbo Renzi a ottobre fosse terrorizzato da un’inchiesta a Napoli “su una persona che avrò visto una volta” (Romeo, quello che non ha mai visto); gli confidasse di essere “controllato”; e avesse saputo tutto dall’amico comandante dei carabinieri toscani, generale Saltalamacchia, durante una grigliata o “bisteccata” a casa sua (Lorenzini sentì l’ufficiale dire a Tiziano: “Stai lontano da quella persona di Napoli”, cioè Romeo, quello che babbo Renzi non ha mai visto).

Poi, volendo, spiegherà perché mai Saltalamacchia dovrebbe avvertire proprio lui dell’indagine su Romeo se lui non sapeva chi fosse; perché si allarmò al punto da parlare con gli amici solo nel bosco e senza cellulare; e perché, quando Lorenzini andò a trovarlo in ufficio, gli fece lasciare l’iPhone sulla scrivania e gli parlò solo nel piazzale; e perché fece dire a Carlo Russo da Billy Bargilli, ex autista del camper di Matteo, di non chiamarlo e non inviargli più sms. Altrimenti – Medjugorje non voglia – dovremmo concludere che, nella riedizione 2.0 della fiaba di Collodi, babbo Geppetto porta il pizzetto alla J-Ax. E mente più di Pinocchio.

Marco Travaglio

P.S.: Possiamo comprendere che mai e poi mai Tiziano Renzi risponderà a Marco Travaglio, vista l'esistenza di pendenze giudiziarie in corso. Ma perchè, visto che Tafanus - assolutamente neutrale su questa vicenda - è altrettanto curioso di Marco Travaglio,  non rispondere a quest'ultimo, che fa sue dell'indiziabile Travaglio con la "T"?

Tafanus

 

mercoledì 15 marzo 2017

Il "ferroviere anarchico" Giuseppe Pinelli è ancora vivo, e sarà ancora a lungo la sveglia delle nostre distratte coscienze...

6Erano anni, che speravo di incontrare, un giorno, Licia Pinelli, questa giovane donna di 89 anni, una bellissima faccia che ha avuto ragione del trascorrere del tempo, e che riesce ancora ad incidere sulle nostre coscienze con la sua sobrietà, il suo sguardo vivace ed ironico, la sua assenza di invettive. Ascolta molto, Licia, e parla poco. Ti risponde con un si, con un no, con un lampo del vivacissimo sguardo, e spesso con un rumoroso silenzio. E io mi sono sdebitato evitando di porle la classica domanda cretina da talk-show televisivo pomeridiano... "Licia, cos'hai provato quando hai appreso quella terribile notizia"? Credo che mi avrebbe fulminato con un sorriso di compatimento...

Devo molto "al Pinelli"... Nei "favolosi anni sessanta" mi affacciavo nel mondo del lavoro, in un irripetibile periodo storico in cui l'Italia cresceva a ritmi da "tigre asiatica", e qualsiasi giovane uomo dotato di un minimo di cultura, di cervello e di spirito d'iniziativa, vedeva spalancarsi tutte le porte verso un futuro brillante, o almeno tranquillo. E noi giovani "rampanti" eravamo abbastanza stupidamente orgogliosi di noi stessi, confondendo con meriti nostri ciò che era solo il frutto della fortunata circostanza di essere cresciuti negli anni giusti. Anni nei quali cambiare azienda ogni tre anni raddoppiando lo stipendio non era un miracolo, ma una situazione di normalità.

Ma era fatale che in quel contesto si diventasse molto concentrati sui nostri successi, e poco attenti al mondo che di li a poco ci sarebbe crollato addosso. In fondo del '68 mi sono accorto solo anni dopo... In fondo il famoso "maggio francese" l'ho vissuto come una specie di evento "live"... Andavo spessissimo a Parigi per lavoro, e dal mio comodo albergo nel quartiere latino guardavo come un film d'azione gli scontri (reali, non virtuali) fra movimenti e polizia, senza capirne il senso, e senza - colpevolmente - farmi delle domande scomode, che avrebbero forse potuto turbare la soddisfazione per il mio status...

In quel contesto, noi "rampanti" non eravamo di sinistra. Alle mie prime elezioni, ero tutto "meritocrazia e liberismo". Pensate... alle prime elezioni avevo votato PLI. A mia discolpa, devo ricordare che si trattava del PLI dei Malagodi (scuola Comit, Mattioli, Einaudi), e non per quello, caricaturale, di Renato Altissimo... Poi per qualche anno ho votato per il noiosissimo Ugo La Malfa. All'epoca, forse non conoscevo neppure la parola "carisma", e comunque non lo giudicavo un elemento importante nella classificazione dei valori politici.

POI ARRIVO' QUEL MALEDETTO DICEMBRE 1969 - Era iniziato bene, per me, quel mese. L'azienda per la quale lavoravo (la più grande azienda italiana di prodotti dietetici) mi aveva appena comunicato che dal 1° Gennaio sarei stato nominato "Dirigente" (parola piena di fascino e di "benefits"). Avrebbero approfittato della chiusura natalizia per allargarmi l'ufficio da due a tre moduli, avrei avuto anch'io una scrivania grande di mogano e non una piccola di formica, una segretaria personale, e avrei goduto del "MIP" (Management Incentive Plan), che di fatto aumentava di colpo il mio stipendio reale del 40%. E avevo 32 anni e mezzo. WOW! Insomma, in quelle condizioni la Cina non era Vicina, e non era vicina neanche Via delle Botteghe Oscure...

Piazza fontanaPoi arrivò il maledetto 12 Dicembre - Il fato volle che io stessi tornando in taxi da Linate, e che prima del Palazzo di Giustizia tutto fosse bloccato. Scesi dal taxi, mi avviai a piedi verso Piazza Duomo, e - arrivato in Piazza Fontana - transennata in tutto il suo perimetro - mi accorsi che la mia vita, e quella del mio Paese, era giunto ad una svolta. La bomba. La maledetta bomba era esplosa solo pochi minuti prima. Notizie confuse, viavai di auto della polizia, dei vigili del fuoco, delle ambulanze, i furgoni della RAI... Dall'atrio della Banca Nazionale dell'Agricoltura usciva ancora del fumo. Un fumo dall'odore acre, di plastica e carne bruciata. Non lo avrei mai più dimenticato.

Notizie confuse, contraddittorie, ma per fortuna nessun Bruno Vespa fra le scatole a chiedere con toni infastiditi. "...ma si può sapere quanti sono questi benedetti morti?..."

Ma non è stato l'odore della morte, a cambiare la mia vita (lo avevo già "assaggiato" da bambino, quando in un paesino della Calabria, dove eravamo sfollati durante la ritirata dei tedeschi, e dove nella chiesa era stato allestito un ospedale (si fa per dire), per i feriti e i moribondi che arrivavano in comitive. Gente di tutti i colori, Tutti sparavano a tutti. Ma i feriti che entravano in quella chiesa (non c'erano letti per tutti, quindi la norma era stare su un giaciglio di paglia) non avevano più "insegne". Non divise italiane, non svastiche, non fazzoletti rossi al collo... Mia madre prestava volontariato in quel macello, e qualche volta mi portò con se, perchè imparassi fin da piccolo cosa fosse la sofferenza. E cosa fosse la tolleranza. I moribondi non portano distintivi, non sono né amici, né nemici. Erano solo poveri ragazzi, spesso "condannati" ad una vita che non avevano scelto, curati (si fa per dire) da personale generoso ed inesperto, in condizioni igieniche inesistenti, e spesso senza medicine giuste e sufficienti.

Non rientrai in ufficio. Andai a casa, davanti alla TV, a cercare di capire cosa fosse successo. il COSA era stato chiaro abbastanza presto. Sul CHI, invece, era subito iniziata una riffa oscena. Non avevo una ostilità pregiudiziale, nei confronti di inquisitori e forze dell'ordine. Come avrei potuto, io figlio di un comandante dell'Arma dei Carabinieri? Ma una cosa, da mio padre, l'avevo imparata: se dopo un delitto hai le idee chiare e indizi concreti, vai a colpo sicuro a fermare due/tre persone. Se fermi 85 persone, le cose sono due: o brancoli nel buio, o stai cercando un colpevole purchessia, da dare in pasto all'opinione pubblica.

IL PINELLI VA IN QUESTURA COL SUO MOTORINO - Proprio così. Quando lo fermano, è così convinto di riuscire a dimostrare in 5 minuti che lui con Piazza Fontana non c'entra nulla (e forse ne erano convinti anche i poliziotti)  che va in questura col suo motorino. E sotto sotto dovevano esserne convinti anche i poliziotti, altrimenti lo avrebbero portato con una loro macchina. In casa Pinelli nessuna sopresa. Il Pinelli era un candidato naturale all'inserimento nella lista dei sospetti: ex partigiano, animatore di un circolo anarchico... quasi perfetto.

7(La famiglia Pinelli: Licia, Pino, e le due figlie Claudia e Silvia FONTE ) Non rifaremo la storia della morte del Pinelli. Tutti possono trovare migliaia di pagine online. Libri, inchieste giornalistiche... Qui vogliamo solo ricordare che Pinelli "è stato suicidato" tre giorni dopo il fermo, quando per legge il fermo non poteva durare più di 48 ore; more solito, ci sono state innumerevoli e contraddittorie "letture" delle autopsie, della meccanica dei fatti, e persino sulla presenza o meno del Commissario Calabresi nella stanza da cui il Pinelli ha spiccato il volo.

La ricerca di "un colpevole qualsiasi" diventa chiara quando a finire sotto il "ventilatore spargimerda" finisce il povero Valpreda, riconosciuto dal misterioso "tassista Rolandi" (al quale era stata prima mostrata la foto della persona da riconoscere). 

E mentre si cerca ad ogni costo un colpevole di sinistra, il potere ignora totalmente segnalazioni e indizi  che piovono da destra (dal gruppo fascista di Freda, Ventura e soci). Il Pinelli e Valpreda saranno totalmente scagionati (troppo tardi...); e i terroristi neri, riconosciuti come autori della strage, se la caveranno. Alcuni per sopravvenuta prescrizione (...ma come... anche il reato di strage può essere "prescritto"?); altri perchè erano stati assolti in un precedente processo a Bari per le stesse accuse.  Per i morti di Piazza Fontana non ci saranno colpevoli. E, in assenza di colpevoli, le spese processuali saranno addebitate ai parenti dei morti ammazzati.

Sullo stesso sito da cui abbiamo preso la foto di famiglia, leggiamo:

"...Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, dopo tre giorni di fermo illegale, Giuseppe Pinelli muore, precipitando dalla finestra di una stanza al quarto piano della Questura, dove subiva l’ennesimo interrogatorio.

A questa morte orrenda, si aggiungono le dichiarazioni infamanti del questore di Milano che afferma la tesi del suicidio a dimostrazione della sua colpevolezza. Pur nel dolore immenso della perdita Licia, con pochi amici, trova la forza e il coraggio di affrontare tutto questo, di ribellarsi alle verità ufficiali e con dignità inizia la sua battaglia per sapere non solo la verità sulla morte del marito, ma per difenderne la memoria così crudelmente distorta.

Chiede giustizia, ma quella giudiziaria non l’ottiene, scontrandosi contro un muro di gomma che le impedisce di entrare in un’aula di tribunale, di sapere quello che è avvenuto in quella stanza, quella notte,.quando in uno Stato che si definisce Democratico, di Diritto, un cittadino innocente, entrato vivo nella questura di Milano precipita da una finestra e muore, dopo tre giorni di fermo illegale.

L’unica inchiesta che venne istruita, in seguito alla denuncia di Licia, affidata al giudice D’Ambrosio, si concluderà nel 1977 archiviando la morte come un “malore attivo”.

A 40 anni da quel 16 dicembre, Licia viene invitata al Quirinale e il 9 maggio 2009, può sentire le parole che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pronuncia in occasione della Giornata della Memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, in cui Giuseppe Pinelli viene indicato come vittima..."

(...peccato... questo mi fa mettere in forse la fiducia che ho sempre avuto nel magistrato D'Ambrosio... "Malore Attivo"??? Ne ho cercato una descrizione su siti medici. Ho trovato solo descrizioni caricaturali di questa rarissima malattia: un riferimento a Pinelli, un altro a Cucchi. Entrambi ammazzati. Che il Malore Attivo sia la nuova malattia della quale soffrono i morti ammazzati dal potere? NdR)

Napolitano-pinelli-calabresiNapolitano e le vedove incolpevoli Pinelli e Calabresi - Nel 2009 il Presidente Napolitano invita al Quirinale Licia Pinelli e Gemma Calabresi, due vittime della stessa violenza. Per la prima volta le due donne si guardano negli occhi, e si stringono la mano. Napolitano fa una delle poche cose di cui gli sono grato: definisce senza mezzi termini il Pinelli VITTIMA di un atto di incomprensibile violenza. E' un chiaro atto di accusa alle istituzioni che non hanno saputo proteggere la vita di una persona che si era affidata alla loro custodia, o addirittura potrebbero aver contribuito attivamente a quella morte (col permesso di D'Ambrosio e della sua teoria sul "Malore Attivo")... Sei anni dopo, alla fine del suo mandato, Napolitano conferirà alle due donne il titolo di "Commendatore".

Il ruolo ambiguo del sindaco italoforzuto Albertini - In Piazza Fontana c'era da anni una lapide in memoria di Pinelli. La lapide è "in memoria di Giuseppe Pinelli, ucciso nella questura di Milano il 16 Dicembre 1969. Uno dei primi atti del Sindaco Albertini, è quello di far togliere nottetempo quella lapide, e di sostituirla con un'altra, nella quale Albertini, in nome della sua natura di uomo di destra, fa cambiare alcuni piccoli dettagli: il Pinelli non è stato UCCISO, ma è "morto tragicamente" (come, non è dato sapere); e poi "accorcia" la vita di Pinelli di un giorno. Nella lapide versione Albertini la morte non risale al 16, ma al 15 di dicembre. Un osceno trucchetto per far rientrare la presenza di Pinelli in questura nelle 48 ore di fermo consentite. Un trucchetto tanto scoperto e patetico da diventare ridicolo.

Lapide-originaria Lapide Albertini

Le due lapidi a confronto

La lapide a sinistra riporta il testo originario (quello che dice la verità storica). E' stata rifatta a cura degli Studenti e Democratici Milanesi, e piazzata accanto a quella menzognera del Sig. Albertini. Le due lapidi, con le loro contraddizioni,  sono un inno alla volgare, ignorante insipienza del Sindaco Albertini (braccia rubate alla "fabbrichetta), e alla "furbizia cretina" di certa destra. Spero che nessuno voglia rimuovere la "Lapide Albertini"...

Il nostro incontro - Devo questo incontro, al quale tenevo moltissimo, alla squisita gentilezza di tre donne: la signora Licia Pinelli, che ci ha ospitati nella sua bella casa in Porta Romana. Ci ha ricevuti - credo per metterci a nostro agio e togliere qualsiasi parvenza di formalismo all'incontro - in cucina, tutti seduti a tavola, a mangiare la sua torta, e a bere succhi di frutta e caffé d'orzo. Lo devo alla gentilezza di sua figlia Claudia, che all'età della perdita del padre aveva solo 8 anni. E lo devo alla intermediazione di una cara amica del "Tafanus" (Enrica A.), legata a Licia dalla militanza molto attiva nell'ANPI e in altre attività di attivismo politico in favore di quel poco che ci resta di sinistra. Tre donne meravigliose.

Un'ultima cosa: non ho fatto molte domande, perchè i fatti li conoscevo bene, e le sensazioni sono fatti privati. Una sola cosa voglio riferire. Ho fatto a Claudia una domanda secca: "Qualcuno si è ricordato, in quasi mezzo secolo, di scusarsi con voi"?

Altrettanto secca e significativa la sconcertante risposta. "NO".

5Claudia e Licia Pinelli, Tafanus, Enrica A.

 Tafanus

 

domenica 5 marzo 2017

Il groviglio dei fedelissimi - Il "Giglio Magico" si rivela per quello che è: un "Giglio Marcio". E trascina a fondo il Leaderino Minimo

Da non perdere il pregevole articolo di ieri di Ezio Mauro, mentre si può, si deve perdere l'articolessa domenicale di Eugenio Scalfari: noiosa come non mai. Scalfari ormai vittima del suo strenuo e patetico tentativo di far combaciare settimanalmente il concavo col convesso. Non funziona, caro Scalfari. Alla fine, a noi interessa capire chi sta con chi, e la sua articolessa gira intorno alla voragine etica che il renzismo ha approfondito in tre anni,  senza che lei abbia il coraggio, e/o la lucidità di decidere se dare una spintarella a Renzi, e in quale direzione... Coraggio, Scalfari. Scelga una volta per tutte con chi stare: cogli interessi di De Benedetti, o con quelli del paese? Non sono necessariamente coincidenti...

Tafanus

"Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti" (di Ezio Mauro)

20170305-renzi-sconfittoTUTTI i nodi non sciolti negli anni del comando stanno soffocando Matteo Renzi oggi, nei mesi della sconfitta, e ciò che più conta rischiano di trascinare a fondo con lui l’intera parabola del Pd, tra scissioni, tesseramenti gonfiati, avvisi di garanzia. Sono nodi politici e giudiziari, riassumibili in un unico concetto: il groviglio del potere cresciuto intorno all’ex presidente del Consiglio, che lo ha coltivato o tollerato nell’illusione di proteggersi, fino a restarne imprigionato.

È infatti la concezione del potere del leader che merita fin d’ora un giudizio, mentre giustamente si attende che le ipotesi d’accusa dei magistrati inquirenti vengano accertate, e intanto gli indagati hanno il diritto di essere considerati giudiziariamente innocenti fino a prova contraria. Dunque l’inchiesta dirà se Tiziano Renzi approfittava del ruolo pubblico del figlio per influenzare nomine e appalti, se il ministro Lotti ha avvisato i vertici Consip dell’indagine in corso e addirittura delle “cimici” negli uffici, in modo che venissero rimosse.

Se Romeo teneva a libro paga il padre del premier, come credono i carabinieri che hanno materialmente ricostruito dalla spazzatura dell’imprenditore un appunto stracciato dove una “T.” figura accanto all’indicazione: 30 mila per mese.

Ma nell’attesa è inevitabile chiedere conto a Renzi di ciò che è già evidente, e soprattutto è sufficiente: il meccanismo di controllo e influenza che ha creato intorno a sé, nominando uomini di provata fedeltà personale nei centri più sensibili del potere pubblico, lasciando germogliare filoni di interesse privato che intersecano quei punti decisionali, mescolando come nei peggiori anni della nostra vita lobby, Stato e famiglia, perché da noi la degenerazione del potere pubblico passa spesso per scorciatoie affettive e tentazioni domestiche.

Ogni leader ha naturalmente il diritto di scegliersi gli uomini di fiducia, e può certo farlo rivolgendosi ai più vicini. Ma quando ha una responsabilità generale, perché non risponde soltanto di sé ma del governo del Paese e del destino di un partito, ha anche il dovere di scegliere le persone più brave d’Italia, non le più fedeli di Rignano. C’è certamente in Renzi una confusione tra Paese e paese. Ma c’è qualcosa di più, che si spiega in termini politici, non geografici o sociologici.

È l’eterna sindrome minoritaria di leader che non riescono a liberarsene nemmeno quando conquistano la maggioranza, senza capire che la vera supremazia sta nell’egemonia e non nelle tessere, nella nuova cultura che si installa e non nelle correnti che si contano, alleandosi oggi per separarsi domani. Potremmo dunque dire, paradossalmente per un leader egocentrico, che il vero limite di Renzi è di ambizione: pensare eternamente a proteggersi dai colpi e a colpire invece che a convincere e conquistare.

Con un progetto capace di presentare una nuova sinistra come leva del cambiamento di un Paese in crisi, in un discorso di verità, tenendo insieme le eccellenze e le sofferenze italiane, in un nuovo disegno di società. Un disegno in cui si riconoscano tutte le anime della sinistra italiana, nella legittima e libera interpretazione che il leader del momento è chiamato a dare, facendosi però carico di una vicenda comune, di storie personali, di una tradizione che parla a un terzo del Paese.

Tutto questo non c’è stato. Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti. L’ex premier deve dire al Paese — e al suo partito che sta per scegliersi il segretario con le primarie — se sapeva, se sospettava, se immaginava: e se no, deve dire cos’ha pensato quando ha scoperto che l’uomo da lui messo alla guida della centrale degli appalti pubblici toglie le “cimici” perché un ministro e il vertice dei carabinieri lo avvertono, quando lo stesso capo della Consip rivela che proprio da Tiziano Renzi dipendeva il suo destino professionale, fino alla revoca della nomina.

L’unica cosa che Renzi non può fare è stare zitto o rovesciare il tavolo attaccando la magistratura come lo incitano i berlusconiani, memori di una pratica abituale a destra. Ma la comunità politica a cui Renzi si rivolge e dalla quale deriva la sua legittimità ha sensibilità differenti, e pretese diverse. E infatti ieri Renzi ha incominciato a sciogliere il nodo famigliare dicendo che se suo padre è colpevole deve pagare due volte.

Resta il nodo politico, intatto. E qui, infine, c’è una risposta che Renzi deve dare a se stesso. Dove lo ha portato quel sistema fondato sugli amici degli amici, asfittico e famelico? La presidenza del Consiglio non meritava qualche ambizione in più di una gestione toscana degli appalti? Domande inevitabili, perché non si può predicare l’innovazione e poi rinchiudersi nella cerchia ristretta di un Consiglio comunale in gita premio a Roma, con visita fugace alle istituzioni. Mentre bisognerebbe sapersi accontentare della sovranità legittima appena conquistata, senza cercare una quota ulteriore e ambigua di sovranità impropria.
Tutto questo Repubblica lo ha chiesto pubblicamente all’ex presidente del Consiglio in un’intervista all’inizio dell’anno: perché scegliere i fedelissimi fiorentini per guidare la macchina governativa, dalla Manzione a Lotti, fino a Carrai incredibilmente proposto per la guida delle cyber security invece di qualche ufficiale dei carabinieri laureato al Mit dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e non al premier?

Perché un capo della Rai scelto nel bouquet della Leopolda? Perché governare con Verdini, e usare il Pd come un taxi per arrivare a Palazzo Chigi? Perché questa attrazione fatale per gli imprenditori e per le banche? Perché non pretendere che quando si ha l’onore di guidare la sinistra e la responsabilità di presiedere il governo i propri familiari si astengano da affari che riguardano il potere pubblico?

Le questioni erano tutte sul tavolo, tre mesi fa. Renzi ha perso tempo, e il tempo non è neutrale. Non ci sarà nessun nuovo inizio se non si parte da qui, dalla denuncia di un sistema di potere malato, e da un sovvertimento radicale di uomini, di metodi, di mentalità. Dopo gli amici, è arrivato il tempo di parlare ai cittadini.

Ezio Mauro

 

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