L'INCHIESTA SULL'IMAM SCOMPARSO
Cia chiama, Ros esegue. Un maresciallo dell'antiterrorismo prese parte al sequestro di Abu Omar. E parla di un commando con molti italiani. Ecco la svolta clamorosa nelle indagini sull'operazione segreta
di Fabrizio Gatti e Peter Gomez
(L'Espresso)
Un filo segreto porta da Palazzo Chigi al sequestro di Abu Omar, l'imam rapito a Milano e torturato in Egitto. Un segreto nascosto in una telefonata partita dalla segreteria di Gianni Letta, il potente sottosegretario al quale Silvio Berlusconi ha affidato la delega per i servizi di intelligence. Pochi giorni fa, come risulta a 'L'espresso', da quel numero interno della presidenza del Consiglio qualcuno chiama l'ambasciata italiana a Belgrado. Ha moltissima fretta. Vuole parlare immediatamente con l'addetto alla sicurezza dell'ambasciatore: un maresciallo dei carabinieri che fino a un anno e mezzo fa ha lavorato nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano. Ed è una coincidenza curiosa. Perché proprio in quelle ore in Procura a Milano il maresciallo sta rivelando una delle storie più compromettenti per il governo Berlusconi e l'intelligence italiana. La vera storia del rapimento di Abu Omar: il sottufficiale racconta che all'ora X, più o meno le 12 del 17 febbraio 2003, addosso all'imam bloccato in via Guerzoni, a metà strada tra il centro e la periferia milanese, non ci sono soltanto gli agenti della Cia. Al sequestro partecipano anche militari italiani. E lui lo sa bene: perché quel giorno il maresciallo dei carabinieri, nome in codice Ludwig, è con loro.
Cadono così tre anni di versioni ufficiali che, una dopo l'altra, hanno sempre negato la presenza di italiani nel commando che ha rapito Abu Omar. A cominciare dalle dichiarazioni del ministro Carlo Giovanardi, mandato da Berlusconi l'anno scorso a rispondere al Parlamento: "Non è neppure ipotizzabile", ha detto Giovanardi a nome di tutto il governo, "che sia mai stata in alcun modo autorizzata qualsivoglia operazione di questa specie né, a maggior ragione, il coinvolgimento nella stessa di apparati italiani". Anche il generale Nicolò Pollari, direttore del Sismi, il servizio segreto militare, ha sempre smentito la collaborazione dell'Italia. Così come il generale ha ripetuto poche settimane fa a Bruxelles davanti alla commissione del Parlamento europeo che indaga sulle operazioni segrete della Cia: "Noi non abbiamo assistito tali comportamenti e nemmeno partecipato né appoggiato questo tipo di attività".
Il maresciallo Ludwig non è il solo italiano coinvolto nell'inchiesta. Altri stanno per essere identificati come complici o testimoni: dovrebbero essere carabinieri, agenti dei servizi segreti oppure, ipotesi più remota, 007 privati ingaggiati per l'operazione. Ma il sottufficiale è al momento l'unico a rischiare già adesso il processo e il carcere per sequestro di persona. Perché il mese scorso il ministro della Giustizia uscente, Roberto Castelli, si è definitivamente rifiutato di presentare agli Usa la domanda di estradizione dei dipendenti della Cia in servizio in Italia: sono i 22 agenti americani del commando che ha rapito Abu Omar per i quali il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, già un anno fa aveva chiesto l'arresto. Il ministro ha anche respinto la richiesta della Procura di Milano di diffondere all'Interpol la nota per le ricerche internazionali. Grazie a Castelli, gli 007 della Cia potranno così andare ovunque nel mondo senza correre il rischio di essere fermati e consegnati all'Italia. Come pubblici ufficiali, i rapitori rischiano condanne fino a dieci anni. Più le aggravanti per le torture subite dall'imam. Ma a questo punto i carabinieri e gli altri italiani coinvolti nell'indagine manterranno la consegna del silenzio con la prospettiva di essere gli unici a pagare? Forse è proprio questo il motivo della misteriosa telefonata partita dal numero interno di Palazzo Chigi.
Ludwig deve il suo nome in codice ai capelli biondi e al fisico da tedesco. Dopo il sequestro di Abu Omar ha fatto carriera: è stato selezionato per il posto di addetto alla sicurezza dell'ambasciata a Belgrado, incarico a volte riservato ad agenti del Sismi. [….] Il giorno in cui tutti gli 007 di Milano si ritrovano nella cascina di Penango mancano tre mesi alla guerra in Iraq. I piani di invasione sono pronti. E forse in un cassetto dell'ambasciata americana a Roma è pronta la relazione per ottenere da Washington il via libera all'operazione Ludwig. Il bersaglio ha un nome lungo: Hassan Moustafà Osama Nasr, nato ad Alessandria d'Egitto il 18 marzo 1963. Nelle moschee di viale Jenner e via Quaranta a Milano lo conoscono come Abu Omar. Il ministero dell'Interno gli ha concesso lo status di rifugiato politico. E la Digos lo sta pedinando da tempo: l'imam è sospettato di reclutare combattenti e kamikaze da inviare in Iraq per la guerra ormai imminente. Forse quel giorno di dicembre, nella sua casa piemontese, Bob ha già spiegato a Ludwig le intenzioni della Cia. Forse gli ha già raccontato del piano di Abu Omar di far esplodere il pullman con gli allievi della Scuola americana di Milano: un piano di cui però la Digos non ha mai trovato riscontri.
Bob e Ludwig si rivedono ancora nell'ufficio del Ros. E poi a cena a casa di Ludwig, ogni volta che Bob deve rimanere a Milano per lavoro. Il 16 febbraio 2003, da quanto risulta a 'L'espresso', vanno insieme in via Guerzoni. È una domenica, c'è poco traffico. Forse passano davanti al palazzo in via Conte Verde 18 dove Abu Omar abita con la moglie Nabila Ghali, in un appartamento messo a disposizione dalla moschea di viale Jenner. Alla fine del sopralluogo Bob consegna a Ludwig un cellulare. E gli ripete cosa dovrà fare. Il maresciallo del Ros deve fermare Abu Omar e chiedergli i documenti. Tutto qui. Oppure intervenire con il suo tesserino dei carabinieri nel caso l'operazione fosse ostacolata dall'improvviso controllo di una volante o dei vigili urbani. Gli agenti della Digos invece non sono più un problema: i pedinamenti di Abu Omar sono stati sospesi da almeno due mesi. La mattina dopo, il 17 febbraio, Ludwig è in ufficio. I suoi colleghi sono impegnati in un servizio a Cremona. Lui resta a Milano e all'ora stabilita - racconta - va all'appuntamento in moto. Deve aspettare il contatto in piazzale Maciachini. Si ferma un'auto. L'uomo al volante, l'unico a bordo, lo chiama con il nome in codice. È sicuramente italiano. Ludwig sale. Fanno tre isolati, girano in via Guerzoni e vedono subito Abu Omar
arrivare a piedi. È l'ora X. Come in un film di spionaggio Bob Lady, regista dell'operazione, non si fa vedere. Il maresciallo scende dall'auto e chiede i documenti. L'imam dice di non avere capito. Lui ripete la domanda in inglese. L'imam consegna il passaporto. All'improvviso, da un furgone parcheggiato lì accanto, esce una squadra di uomini. Forse c'è qualche americano. Ma chi parla impreca in italiano, senza accento straniero. Prelevano Abu Omar, che grida, chiede aiuto. Il maresciallo Ludwig si sposta per non essere travolto. In meno di 30 secondi il furgone parte verso la periferia. Il maresciallo resta immobile, con il passaporto di Abu Omar in una mano e il cellulare di Bob Lady nell'altra. Butta tutto dentro il finestrino dell'auto che l'ha portato fin lì. L'italiano al volante accelera e se ne va. Poco dopo squilla il cellulare personale di Ludwig. È un ufficiale dei carabinieri che vuole avere notizie del suo dipendente. Forse è solo una coincidenza. Ma le antenne dei telefonini sui tetti del quartiere registrano: posizione, numeri, durata delle conversazioni.
Dall'altra parte della strada una donna egiziana vede gli 007 in azione e racconterà tutto a un'amica. Nel giro di due giorni la comunità araba a Milano sa che Abu Omar è stato rapito. Viene presentata la denuncia alla Digos. L'indagine sembra facile: basterebbe chiedere alla Telecom e alle altre compagnie i dati sul traffico telefonico nella zona all'ora del rapimento. Ma i risultati arrivano soltanto in ottobre. E non servono a nulla perché non riguardano le telefonate del 17 febbraio, ma quelle del 17 marzo. Dopo otto mesi bisogna ricominciare le indagini daccapo. Adesso i nomi di altri italiani in azione con la Cia potrebbero ancora nascondersi dietro i numeri di telefonino. Soprattutto quelli rimasti senza intestatario. Una copertura ottenuta grazie alla complicità di alcune compagnie telefoniche. Come ha scoperto 'L'espresso', centinaia di schede Sim vengono periodicamente consegnate ai servizi segreti senza essere registrate. Numeri fantasma da usare e buttare dopo ogni operazione sporca [….]
L'ultimo colpo di scena sul rapimento di Abu Omar risale al 4 maggio. Gli Stati Uniti comunicano che non forniranno informazioni sulla pattuglia che in Iraq ha ucciso l'agente del Sismi
Nicola Calipari e il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, accusa i magistrati milanesi: "Una vicenda finita in maniera non positiva per l'Italia a causa delle polemiche con la Procura di Milano" che ha chiesto l'arresto di 22 agenti della Cia. I sequestri di persona sono un reato e le torture un crimine contro l'umanità. L'ordine di arresto per il rapimento dell'imam, chiesto dal procuratore aggiunto Armando Spataro, è stato firmato il 22 giugno 2005 e porta la firma del gip Chiara Nobili. Ma da quel giorno il governo Berlusconi si è sempre rifiutato di assistere la Procura nelle indagini. Perché?
Il coinvolgimento della Cia è confermato dall'esame delle telefonate dei cellulari concluso solo a fine 2004, dopo ritardi e depistaggi: "È stato possibile individuare due gruppi di utenze", scrive il gip, "un primo era presente sul luogo del rapimento; si è recato verso Cormano e ivi si è incontrato con i componenti del secondo gruppo". A Cormano, appena fuori Milano, il furgone ha preso l'autostrada per raggiungere la base di Aviano, in Friuli, dove l'imam è stato torturato, interrogato e poi caricato su un aereo. Tra i telefonini in azione, ce ne sono due di cui si conosce solo il numero. L'ordinanza li chiama Alfa e Beta. Del secondo gruppo si sa tutto: sono gli agenti della Cia in contatto con il comandante della base di Aviano e con l'ambasciata a Roma. Ma del primo commando si è scoperto ancora poco: chi c'era accanto al maresciallo Ludwig? [….]
Abu Omar, 43 anni, nella primavera 2004 rischia di morire e viene rilasciato per pochi giorni in Egitto. Parla al telefono con un imam di Milano. Gli racconta dei due che il 17 febbraio 2003 l'hanno fermato in via Guerzoni chiamandolo in italiano. E delle torture subite. Ad Aviano il primo pestaggio. Il resto in carcere in Egitto [….] "La prima tortura consisteva nel portarlo in una stanza e nel farvelo rimanere mentre vi venivano diffusi suoni ad altissimo volume: ha subito danni all'udito. La seconda consisteva nel metterlo in una specie di sauna ad altissima temperatura e poi in una cella frigorifera, producendo dolori fortissimi alle ossa. La terza consisteva nell'appenderlo a testa in giù, applicandogli elettrodi, compreso all'apparato genitale. Ha subito danni... all'apparato urinario, era diventato incontinente... Lo torturavano ritenendolo un terrorista e un militante contro il regime egiziano. Volevano estorcergli informazioni...".
…e ora resta solo da chiarire quale sia la “fonte” di Palazzo Chigi che sta tentando di affibiare la “eventuale responsabilità” dell’ “eventuale accaduto” al piuttosto morto Calipari. Quando cambierà strada, questo paese?
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