(L'articolo di Nello Ajello - l'Espresso)
Cent'anni fa nasceva Arrigo Benedetti, fondatore de 'L'espresso' con Scalfari, e primo direttore. Ricordo e ritratto di un grande giornalista curioso e perfezionista. Che impose uno stile rigoroso e moderno
Detestava ogni cerimoniosità, ogni lungaggine. Guai a scrivere 'il cosiddetto', 'in sede di', 'dal canto suo' ('chi è che canta?', lo si sentiva esclamare). Non potevi usare 'quello' in luogo di 'ciò'. Lo irritavano le virgolette ammiccanti o l'abuso di congiuntivi. Imponeva l'apostrofo appena possibile: 'la firma d'Andreotti', 'i monumenti d'Assisi'. Quando gli portavi l'articolo appena scritto, le alternative erano due. Il direttore poteva leggerlo di persona. La prima parola indebita - specie se usata in cima al testo - veniva cancellata con impeto; la seconda produceva un tremito febbrile, dalla terza in poi c'era il rischio che le pagine finissero appallottolate. Subito dopo andavano raccolte e riscritte. "C'era gente che piangeva", ha testimoniato Manlio Cancogni. Seconda variante: Benedetti si faceva leggere l'articolo, a voce alta, dall'autore. Spesso, per l'orgasmo, la dizione non era delle migliori. Al secondo o terzo intoppo il direttore requisiva i fogli e si poteva ricadere nella devastazione cui accennavo.
Tutti i giornalisti, anche i più ricchi di avvenire, da Cancogni a Gianni Corbi (che nel 1960 sostituì Antonio Gambino come caporedattore), da Livio Zanetti a Marialivia Serini, hanno visto o subìto simili traversie. Un servizio sui palinsesti della Rai, scritto in tandem da Corbi e Fabrizio Dentice, Benedetti lo fece rifare tre volte. Alla terza si udì nei corridoi un gemito - o era un ruggito? - di Dentice, persona solitamente discreta e dal tratto aristocratico. Recuperato un umore decente, in qualche caso Benedetti rivolgeva la parola alla vittima di poco prima, a riprova che ruvidezza era in diretto contatto con la sua onestà. Solo nel caso di contrasti irrimediabili, il redattore colpevole veniva trasferito in tipografia - si stampava allora alla Tumminelli, in via dell'Università - a dare una mano ai correttori di bozze. Una specie di Caienna.
Benedetti intratteneva un legame intensissimo con il coetaneo Mario Pannunzio, come lui nativo di Lucca. Lo consultava, ne accettava le critiche. Fu per amor suo che Arrigo s'iscrisse al Partito radicale, lui che i partiti non li amava. Fra i redattori privilegiava Mino Guerrini, che lo divertiva con quella sua aria da impunito, e Carlo Gregoretti, che lo aiutava a impaginare il giornale. La fantasia grafica del direttore era fervida, quasi gioiosa. Brandiva il righello, misurava gli spazi, tagliava le foto dotandole di un raffinato protagonismo espressivo.
Le sue mattinate erano burrascose ma brevi. All'una raccoglieva i giornali e tornava a casa. Abitava in via Paisiello, vicino al giornale. La sua religione degli orari era legata, nel fondo, a un'avversione da toscano per Roma, i romani, il romanesco. Ai tempi de 'L'espresso', la personalità di Benedetti era già proverbiale. L'esperienza vissuta in via Po proseguiva una lunga vita professionale. Era stato con Leo Longanesi ad 'Omnibus'. Con Mario Pannunzio aveva diretto 'Oggi', soppresso dal regime fascista nel 1942. Il giorno di Natale del 1943, arrestato per antifascismo, venne rinchiuso nel carcere di Reggio Emilia, dal quale evase durante un bombardamento. Avrebbe poi raccontato questa esperienza in un romanzo, 'Paura all'alba' che resta fra i suoi testi letterari più duraturi. ("Paura all'alba!", noi avremmo ripetuto per tanti anni entrando di mattina, verso le dieci, in redazione. L'alba era passata da un pezzo, ma Benedetti era già ad aspettarci). Nell'immediato dopoguerra, il giornalismo lo aveva riconquistato.
Camilla Cederna lo ricordava appena nominato direttore de 'L'Europeo' fondato nel novembre del 1945, a Milano, dall'editore Gianni Mazzocchi. Trentacinquenne, magro, sposato e padre di due figli piccoli, Agata e Alberto, il volto non ancora decorato da quel doppio mento che lo avrebbe fatto soprannominare 'Il tonno', Benedetti le apparve risoluto a imprimere una svolta al mondo delle notizie.
Camilla Cederna lo ricordava appena nominato direttore de 'L'Europeo' fondato nel novembre del 1945, a Milano, dall'editore Gianni Mazzocchi. Trentacinquenne, magro, sposato e padre di due figli piccoli, Agata e Alberto, il volto non ancora decorato da quel doppio mento che lo avrebbe fatto soprannominare 'Il tonno', Benedetti le apparve risoluto a imprimere una svolta al mondo delle notizie.
Quel settimanale decollò presto. Vi affluirono giornalisti di grande talento, da Manlio Cancogni a Tommaso Besozzi, a Giancarlo Fusco, per fare qualche rapido esempio. Con le colonne sottili, i lunghi articoli di fondo, le ricche fotocronache, 'L'Europeo' rifletteva un'epoca in cui i quotidiani tardavano a sgranchirsi da una storica ufficiosità cui il fascismo aveva cumulato i suoi vizi. Ora la realtà di una democrazia appena rinata diventava un terreno da esplorare a fondo. Gli aspetti umani, personali, aneddotici delle vicende venivano portati in primo piano. L'economia otteneva risalto. Nel marzo del 1950 era arrivato a Milano un giovane ventiseienne, Eugenio Scalfari, capo dell'ufficio stampa della Banca Nazionale del Lavoro. Proveniva dal gruppo del 'Mondo'. Benedetti gli affidò la prima rubrica di economia apparsa su un settimanale. 'L'Europeo' di Benedetti concluse la sua parabola con il numero del 16 maggio 1954. Mazzocchi lo aveva venduto al collega Rizzoli, editore di 'Oggi' e 'Candido', destra benpensante. Dimettendosi, Benedetti evitò di accodarsi alla compagnia. (... ne ha fatta poi, di strada all'indietro, l'Europeo... dai fasti di Arrigo Benedetti - 1945/1955 - a Michele Serra - 1955/1957 - all'Europeo di Littorio Feltri - 1989/1992, e all'affossamento del 1995... NdR)
Padre riconosciuto dell'attualità in rotocalco, Benedetti non aveva mai smesso di dare ascolto al giovanile richiamo della letteratura. Quelle da cui aveva tratto notorietà e prestigio gli parevano avventure a termine. Nove anni a fare 'L'Europeo', otto a regnare su 'L'espresso'. Già in una pagina di diario del febbraio 1960 egli definisce il giornalismo "la lunga distrazione di cui sono prigioniero". Passa ormai ogni weekend in una sua villa a Saltocchio, un passo da Lucca, a rimeditare sui capitoli di un romanzo che a Roma ha dettato, magari a tarda sera, a una segretaria. "Continuo a correggere", confida al suo diario, "Tornando a Roma detterò di nuovo". Il 10 aprile 1963 lascerà a Scalfari la direzione de 'L'espresso'.
Il romanzo a cui sta lavorando s'intitolerà 'Il passo dei Longobardi'. Tema: la storia di Lucca dal 1921 al 1944. Data d'uscita: 1964, Mondadori. Accoglienza: tiepida. I rapporti di Benedetti con il giornale si diradano, tranne che per la sua rubrica 'Diario italiano'. La tiene fino al giugno 1967, quando, entrato in conflitto con Scalfari per una diversa valutazione della Guerra dei sei giorni, reciderà anche quest'ultimo legame con via Po.
Cosa raccontare, su Benedetti, negli anni che vanno dall'addio definitivo a 'L'espresso' alla morte, nel 1976? C'è la direzione del 'Mondo', fra il 1969 e il 1972: un omaggio all'amico Pannunzio, da poco scomparso. Escono altri suoi volumi di narrativa, dal 'Ballo angelico' (1968) a 'Rosso al vento' (1974). I più sorprendenti saranno i libri apparsi postumi: 'Cos'è un figlio' - ricordo elegiaco del suo secondogenito, Alberto, vittima di un incidente subacqueo - e il 'Diario di campagna'. Dopo essersi accostato nel 1975 alla sinistra suscitando stupori e rimproveri, dirige per meno d'un anno 'Paese sera'. Un giornale stanco, guidato da un uomo stanco [...]
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